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“Dio abita dove lo si lascia entrare”

Dario Antiseri
Pubblicato il 30-11--0001



Quali sono i tratti di fondo dell' “homo religiosus”? E' questa la domanda centrale alla quale hanno risposto eminenti fenomenologi della regione come Gerardus van der Leeuw e Rudolph Otto. Ebbene l'uomo religioso, ad avviso di costoro, è colui che “si sente creatura”, vale a dire colui che si è reso consapevole della propria contingenza e, quindi della essenziale incapacità di costruirsi un senso assoluto della vita. L'uomo religioso – scrive R. Otto – “s'affonda nella propria nullità e scompare al cospetto di ciò che sovrasta ogni creatura”. E per van der Leeuw, l'uomo religioso non si fa travolgere dalle occupazioni della quotidianità, resiste al banale: egli “persiste nel cercare, sempre più oltre, un senso sempre più profondo e più vasto”, domanda il significato ultimo delle cose e “scopre il loro senso religioso”.

Dopo le illusioni filosofiche del secolo passato dove l' “abuso” della ragione aveva presunto di proibire lo spazio del sacro, ai nostri giorni la riflessione filosofica più scaltrita ha distrutto quegli “assoluti terrestri” che pretendevano di cancellare sensatezza e ragionevolezza dell'Assoluto trascendente. Un senso ultimo non umanamente costruibile può essere umanamente, invocabile. “ Pensare al senso della vita significa pregare” – ha scritto Ludwig Wittgenstein, il quale ha aggiunto che “credere in un Dio vuol dire vedere che i fatti del mondo non sono poi tutto”.

Martin Buber nei racconti di Chassidin parla del Rabbi Mendel di Kozk, il quale “stupì alcuni uomini dotti che erano suoi ospiti con questa domanda: “Dove abita Dio”. Quelli risero di lui: “Che dite? Se tutto il mondo è pieno della sua gloria?”. Ma egli rispose da se alla propria domanda: “Dio abita dove lo si lascia entrare”. E non lo si lascia entrare dove si assuma che “i fatti del mondo siano tutto”, dove si alimenta l'ilusione secondo lui l'uomo sarebbe capace di auto salvezza, di salvare se stesso dai gorghi dell'assurdo.

La filosofia non salva. Pone, sì, la “grande domanda”, la domanda metafisica sul senso ultimo della vita, ma ha fallito nella proposta di risposte accettabili. La “grande domanda” – ha scritto qualche anno fa Norberto Bobbio – “è una richiesta di senso, che rimane senza risposta, o meglio che rinvia ad una risposta che mi pare difficile chiamare ancora filosofica”. Ma, precisava sempre Bobbio, “proprio perché le grandi risposte non sono alla portata della nostra mente, l'uomo rimane un essere religioso, nonostante tutti i processi di demitizzazione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni della morte di Dio, che caratterizzano l'età moderna e ancor più quella contemporanea”. La “grande domanda” c'è, legittima ed inestirpabile, anche se “legittima” al di fuori della scienza. E la domanda trascina con se l'esigenza di una risposta – “il che spiega la forza della religione . Non è sufficiente dire: la religione c'è ma non dovrebbe esserci. C'è: perché c'è? Perché la scienza da risposte parziali e la filosofia pone solo domande senza dare risposte”.

È esattamente in un orizzonte del genere che assumono tutto il loro valore gli atti di quell'homo religiosus che si fa pellegrino verso il “luogo sacro” dove altri uomini di fede hanno incarnato i più alti ideali di vita religiosa. È nella venerazione del “santo” – simbolo storico del “sacro” che il “pellegrino” consapevole del suo “essere creatura”, trasforma la sua “interrogatio” in “rogatio”.

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