racconti

San Francesco fratello universale

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Vincenzo Paglia, Vescovo di Terni

Giovanni Paolo II parlò di Assisi come di un “luogo che la figura serafica di Francesco ha trasformato in Centro di fraternità universale”. Potremmo dire che in certo modo esplicitava il nome di Assisi, traeva cioè dalla memoria ancora viva e forse poco esplorata di Francesco quella dimensione universale che è l'unica via per la pace e la salvezza della convivenza umana. Da quel giorno, in effetti, Assisi travalicava i confini della cristianità per raggiungere quelli estremi del mondo. Non venivano superati solo i confini geografi ci, ma anche quelli delle religioni, delle civiltà e delle culture. Si riscopriva quella tensione alla fraternità universale che caratterizzò in maniera unica l'opera di San Francesco. Giovanni Paolo II ha potuto trasformare Assisi in una “cattedra” di fraternità e di pace, accolta da tutte le religioni, per la testimonianza universale di San Francesco. Il giovane assisiate è, in certo modo, all'origine dello spirito di Assisi perché lo ha vissuto nella sua stessa vita ascoltando il Vangelo e mettendolo in pratica alla lettera. Vivere lo spirito di Assisi non significa un embrassons nous generale, ma essere uomini e donne evangeliche che sanno vivere nella complessità del mondo di oggi. Anche per Francesco vivere secondo la forma evangelica non fu semplice, senza fatica, senza disciplina, senza lavoro su di sé, senza rinuncia, senza tagli, senza correzioni, senza riflessione, senza preghiera. Francesco dovette fare violenza a se stesso e cambiare vita radicalmente per vivere la forma di vita evangelica. Solo la somiglianza a Cristo sino alle stigmate lo rese “missionario” in un mondo che stava in rapido mutamento e che vedeva la Chiesa ancora muta nella predicazione del Vangelo. Lo sapete bene che l'Umbria in cui visse Francesco era una terra di grandi lotte fra città e tra fazioni all'interno stesse delle città (alla guerra di Assisi contro Perugia vi partecipò direttamente). Ma il giovane assisiate sentì il disgusto di quella vita. Scrive il Celano: “niente gli dava più alcun diletto”(1 Celano 17). Francesco ascoltò il Vangelo e volle metterlo in pratica alla lettera, senza aggiunte. Diede tutto quel che aveva ai poveri e restituì al padre quel che gli era rimasto. Per sé scelse di stare accanto ai poveri, anzi di vivere come loro. “Il povero Francesco, padre di poveri, voleva vivere in tutto come un povero; non poteva sopportare senza dolore di vedere qualcuno più povero di lui” (1 Celano 76), nota il Celano. Francesco uscì dal suo mondo, che divideva i ricchi dai poveri, i sani dai lebbrosi, i cittadini dagli esclusi (i minores), per divenire povero ed essere fratello universale degli uomini e delle cose, degli animali e del creato, degli amici e dei nemici. Francesco, appunto, fratello minore, ossia universale. Aveva intuito una verità profondamente evangelica: l'universalità parte sempre dai poveri, dagli ultimi. Questa fraternità a partire dagli ultimi è la pace che Francesco vive per sé e che propone ai suoi frati. Ed è la radice di quel che oggi chiamiamo lo “spirito di Assisi”; senza di lui questo spirito è incomprensibile e improponibile. Pace e fraternità universale per Francesco coincidono. Ed è esattamente questo il tesoro dello “spirito di Assisi”. E lui lo viveva a partire dai suoi. Diceva: “i frati non abbiano alcun potere o dominio, soprattutto fra loro [...] e chi tra loro vorrà essere maggiore sia il loro ministro e servo” (Regola non bollata, V, 22). Colui che assume una funzione di coordinamento deve comportarsi come una madre; deve rivoluzionare il rapporto dei sudditi nei confronti dei ministri; e i sudditi possono parlare “come i padroni ai loro servi, perché così deve essere, che i ministri siano servi di tutti i fratelli” (Ammonizioni, 4). Tratta i suoi frati come cavalieri della Tavola Rotonda, per significare plasticamente l'uguaglianza con tutti. Di fronte ai fallimenti il rimedio – dice Francesco – sta nello spirito di fraternità: “si guardino dal turbarsi e dall'adirarsi per il peccato o il male di un altro”, “lo ammoniscano, e lo istruiscano e lo correggano con umiltà e diligenza”, “e il ministro e servo faccia di lui come gli sembrerà essere più conveniente secondo Dio” (Regola non bollata, V). Questa fraternità è per sua natura universale, ossia aperta a tutti senza esclusione alcuna. Andando per il mondo i frati devono comportarsi in maniera evangelica, vivendo poveramente, mangiando ciò che è stato messo loro davanti, rinunciando a qualsiasi forma di violenza, e dando a chi chiede. È dallo spirito evangelico che si può comprendere la sua scelta di andare dal sultano a Damietta, senza spada e forte solo della sua parola. Lo sapete bene che la crociata era persino predicata dal Papa e Francesco inizialmente ne subì il fascino. Non si deve inoltre dimenticare che la tensione con il mondo musulmano era forte almeno come oggi, se non di più. La crociata era tesa allo sterminio più che alla difesa. Il Vangelo ispirò a Francesco un'altra strada, più forte della forza della spada. Non fu capito. Ma Francesco non si fermò. E non è che la nuova via gli impedisse la missione di comunicare il Vangelo, tutt'altro. Francesco non scelse la politica ma non si estraniò dalla città. Anzi, entrò nelle pieghe più tragiche della vita umana per curarle ricomponendo liti e contrasti. In una società ruvida e bellicosa nei rapporti sociali, egli insegnò il valore della “cortesia” nel rapportarsi con tutti e tutto. La sua esperienza fu unica nella sua capacità di incontrare e riconciliare persone diverse tra loro. L'essere penitenti, tipica modalità del medioevo di vivere il Vangelo, ha assunto in lui una forza spirituale del tutto originale. Mentre essere cristiani significava ripudiare il mondo mediante il disprezzo di sé, per Francesco invece significò essere misericordioso con tutti. L'inizio della sua esperienza, infatti, era stare con i lebbrosi usando misericordia con loro come Dio l'aveva usata con lui. Ed è non poco significativa per il suo aspetto “rivoluzionario” l'affermazione che fece dopo il bacio del lebbroso: “Ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo” (FF110). Il Vangelo vissuto alla lettera gli aveva persino cambiato il gusto della vita. Ebbene, Francesco ha avuto un gusto nuovo, pieno di dolcezza e di tenerezza, di forza e di passione, nell'incontrare gli uomini e il creato. Questo nuovo gusto è la pace. Sì, questa è la pace per Francesco: non una cosa da fare, ma un modo di essere e di vivere tra gli uomini. Solo se si è uomini pacifici si può essere pacificatori.

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