francescanesimo

COME SAN FRANCESCO CON GLI AMMALATI: FARE PROPRIO LO STATO D'ANIMO DELL'ALTRO

Marco Iuffrida
Pubblicato il 27-04-2017

Non è facile, a volte, quando è il dolore a farti visita, quando è un tuo coetaneo a trovare la morte per mano di chi usa la parola di Dio

Non è facile, a volte, quando è il dolore a farti visita, quando è un tuo coetaneo a trovare la morte per mano di chi usa la parola di Dio, non è per niente automatico, dicevo, trovare l’ispirazione per approfondire le migliori intenzioni umane, ora violate dal fragore della violenza, dai colpi di un kalashnikov. Se il dolore viene a bussare alla tua di porta, non c’è niente da fare, lo senti più vicino di quanto la tua immedesimazione lo possa solo percepire quando è più lontano, in Libano, in Iraq, in Siria, in un aereo carico di passeggeri che esplode in cielo. Il dolore è incomprensibile se è lontano da noi, se non lo si è andato a visitare, a conoscere, e allora sembra più semplice scrollarselo di dosso perché la speranza di annullarlo è più forte, e forse perché in quel dolore non ci si vuole riconoscere: in fondo, ciò che non ha senso è un vuoto simulacro. Il terrorismo internazionale vuole che sia il dolore senza senso a farci visita, in casa. Cristo, Francesco, due uomini che il dolore altrui lo hanno raccolto per tramutarlo in accoglienza, in una mano tesa che rialza chi è caduto, in ciò che di meglio l’umanità può offrire a sé stessa. È una questione di educazione all’amore, il Cristianesimo, e tutto ciò che non educa all’amore è banalità del male. La nostra condizione umana, che può essere dedita all’amore, ha allo stesso tempo il germe del male che ne condizionerà sempre l’esistenza. Ma ogni donna e ogni uomo sono potenti, hanno l’antidoto al male.

Dopo questa premessa, che il lettore vorrà perdonarmi, devo ammettere che non ho ancora esaurito la necessità di dichiarare i miei intenti: nell’articolo che mi accingo a scrivere chiedo che mi venga a “visitare” l’ispirazione, questa volta, perché l’ho perduta. Perduta nel silenzio del fragore, e sono attonito per la barbarie odierna insita nell’essere umano. Anche io sono fatto di quella stessa carne capace di produrre male. A volte, lo storico o il giornalista che scrive di Storia, contemporanea o passata, teme che il suo esprimersi sia solo autocelebrazione di chi pensa di potere offrire una cura al male. Che possano allora essere altre le parole, anzi, le immagini di meraviglia umana a tramutare in Bellezza la mia momentanea infermità nell’esprimermi, il mio non sapere trovare ragione, per poter trattare al meglio della Quinta Opera di Misericordia Corporale di Gesù, il visitare gli infermi, in chiave francescana.

Ma poi cosa significa visitare l’infermo? Mi chiedo in questo periodo di deserto. La risposta è nella misericordia attuata da Francesco d’Assisi. L’infermo è colui che è impossibilitato a essere nel pieno della sua salute, fisica e mentale, e il nostro interessamento per lui è uno sforzo immane nella maggioranza dei casi perché è difficile ma teso a cambiare quella condizione orribile. Non è per niente una cosa semplice visitare un infermo, qualsiasi sia la malattia o dolore interiore che ne determina il suo stato invalidante: come può essere bella la sofferenza tanto da dedicarvi del preziosissimo tempo? È difficilissimo donare forza vitale a chi non ce l’ha o non la vuole avere più. Io sono fortunato, sto bene. Ma come tanti, altri, mi sono ritrovato nella condizione di sofferente, in attesa di una visita che potesse almeno rincuorarmi. E quella visita c’è stata o, meglio, l’ho riconosciuta tra le tante che sono state invece vane. È nell’incontro che credo avvenga il cambiamento, come quando un innamoramento inaspettato per qualcuno consente all’innamorato di dimenticare tutto il male che lo aveva intossicato, prima, quando il suo cuore era solo un ticchettio in attesa del risveglio. Veniamo alla “visita” che mi venne fatta. Qualcuno mi consigliò di vedere un film, un giorno, perché mi sarebbe sicuramente piaciuto. La pellicola in questione è Francesco (1989) di Liliana Cavani. In quel periodo il film era datato da una quindicina di anni, e io, approfondivo la figura del santo in alcuni suoi aspetti. Ancora non mi era capitato di “vedere” realmente Francesco d’Assisi, l’uomo. Cioè, ero ben conscio che tutta la documentazione storica concernente Francesco, biografie, racconti, testimonianze, e soprattutto la loro interpretazione poteva in qualche modo aver turbato la sua vita. L’immagine e il modello francescano di derivazione letteraria rischiavano di aver distorto il vero Francesco. Quella mirabile opera d’arte che è dentro il film della Cavani ha invece permesso ai miei occhi di riconoscere il volto umano di un individuo reale, fatto della mia stessa carne, appunto, e che ha rivoluzionato il mondo offrendo il meglio che potenzialmente la stessa umanità, ripeto, la stessa che produce il male, ha nelle sue mani.

Nella “sovversiva” creatura che la regista ha proposto con il suo Francesco emerge un’inchiesta storica perfettamente riuscita sul mistero di un carisma. Questa vita di santo si ripropone più che mai come emblema di una rivolta giovanile contro il non senso, e come sguardo di un Francesco immanente, vicino a qualsiasi sofferenza. Le immagini che derivano da una sceneggiatura cinematografica di tale caratura colgono nel segno, assimilando le vicende di Francesco a una visita del santo all’infermo che è presente in ogni essere umano. È impossibile non amare l’uomo nato da questo ritratto fatto di sensazioni e gesti tangibili, non di poteri sovrannaturali di santi supereroi. Il Francesco della Cavani è un’eccezione nel suo presentarsi come narrazione della vita di un santo, e la scrittura che caratterizza il tessuto della sceneggiatura è la visone di un cittadino del mondo che oltre al piacere scopre violentemente la miseria, la violenza, le umiliazioni, le percosse, la fame, ma anche il rimedio. Riporterò una serie di rappresentazioni che ordiscono proprio dalle righe di quella sceneggiatura, richiamando le visioni di più chiara partecipazione, e visita volontaria, del santo alla quotidiana sofferenza di un’umanità carica di una moltitudine di infermità, ottemperando così al suggerimento di Cristo: prendere coscienza del dolore in tutti gli strati sociali. Andare in visita significa essere presenti, accorgersi e fare proprio lo stato d’animo altrui o di una determinata situazione. Spesso, è lo stesso Francesco l’infermo che attende una visita. I passi del soggetto del film che citerò, riadattandoli allo spazio qui a disposizione ed evidenziandone i momenti di “visita” con protagonista il santo, sono estratti dunque da Francesco. Sceneggiatura di Liliana Cavani e Roberta Mazzoni. Milano 1989. Si avrà l’impressione di non percepire chi veramente sia la persona che la riceve, l’utile visita, e si compone una riflessione, mano a mano, su chi sia da ritenere il vero infermo.

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