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Lo 'spirito di Assisi'èdi Remo Bodei, Professore UCLA, Emerito a Pisa

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001



Forse più che nel passato (o in maniera diversa da esso) abbiamo oggi bisogno di verità e, per giungervi, di un percorso comune e rispettoso tra uomini di buona volontà e di buon intelletto, disposti a cercarla senza pregiudizi, superando presunzione, rassegnazione e cinismo. Benedetto XVI ha giustamente posto l'accento sul fatto che il cristianesimo ha ereditato e inglobato la filosofia classica e che, pertanto, non rifiuta di confrontarsi sulla base di argomenti razionali. Tale incontro tra ideali e prospettive diverse è tanto più importante perché attualmente la politica e i mezzi di comunicazione di massa tendono spesso a provocare l'infantilizzazione del pubblico. Anche dopo la fine dei totalitarismi del Novecento, il tratto fondamentale della menzogna continua a esser rappresentato non dal nascondimento della verità, ma dalla sua strutturale sostituzione.

Il film di Peter Weir The Truman show è una metafora adeguata ed esagerata (talvolta però l'esagerazione è un'utile lente d'ingrandimento) della tendenziale indistinzione che si viene a produrre tra fiction e realtà.

Occorre chiedersi se non prevalga non in molti la degradazione della verità a semplice opinione, accompagnata dall'inaridimento della facoltà di giudicare e dalla mancanza di prospettive atte a innalzare gli individui al di sopra della banalità della vita quotidiana o di miopi interessi. Se così è, per combattere il torpore mentale e morale, per ritrovare se stessi in una dimensione dell'esistenza che non si alimenti solo di fuggevoli soddisfazioni, non abbiamo forse bisogno di un nuovo diritto fondamentale dopo l'habeas corpus, ossia quello dell'habeas mentem?

È, dunque, necessario riscoprire valori meno venali, non più strettamente legati a un consumo di beni che cerca di riempire una vita svalutata e povera di senso, ad ambizioni di carriera o alla spasmodica rincorsa di piaceri effimeri. Ci si deve riabituare a riflettere sull'essenziale, su quanto di solenne e perfino di terribile l'esistenza presenta.

Ci sono cose che non si possono dimostrare e che rendono in parte sterile l'antica e sempre ripresa querelle del rapporto tra fede e ragione. Si racconta che, nel Seicento, portarono il matematico francese Roberval a vedere una tragedia di Racine. Lui uscì scuotendo la testa e dicendo: “Non ho capito cosa voleva dimostrare”. Ebbene, nemmeno l'amore o la speranza si possono dimostrare e nemmeno la verità che è in noi è facile da attingere, perché siamo in gran parte ignoti a noi stessi. La speranza di rincontrare noi stessi fonda la possibilità di accogliere quella parte di noi che ci è sempre rimasta estranea, che ci accompagna come un ombra e tuttavia costituisce un'immensa riserva di senso e di vita di cui dobbiamo, almeno in parte, riappropriarci.

La paura dei laici è che aprirsi alla speranza o alla fede significhi concedersi all'illusione o all'inganno, cedere al sacrificium intellectus. Quella dei cristiani è, spesso, che si intacchino e si erodano le granitiche certezze della fede. Bisogna tuttavia sforzarsi di essere aperti, ma non per semplice cortesia e condiscendenza. Un apologo di Schopenhauer può aiutarci a capire: “Una compagnia di porcospini, in una, fredda giornata d'in­verno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore recipro­co, dal rimanere assiderati.

Ben presto, però, sentirono le spi­ne reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l'uno dall'altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell'altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione”. Incapaci di togliersi gli aculei (o spaventati dall'idea che un'eventuale rinuncia a essi li renda più vulnerabili), tra la puntura degli aculei e il gelo. gli uomini si accontentano di rapporti tiepidi con gli altri e con se stessi, di una sopportabile infelicità o di una banale felicità.

Nel privarsi degli aculei, nel mostrarsi indifesi, l'amore, la speranza o la fede accettano il rischio, si rendono vulnerabili alle ferite, ma anche, eventualmente, esposti a una gioia o un'esperienza più alta. Forse questo è il senso della Lettera ai Filippesi (2-6), di San Paolo in cui Dio si svuota della sua potenza (kenosis} e si presenta non come un Signore onnipotente, ma come un essere debole, che si dona per amore. E, forse, anche in questo senso si potrebbero interpretare le parole di Agostino nelle Confessioni, quando dice che Dio interior intimo meo (III, 6, 11), più dentro di me di quanto io lo sia a me stesso. Per questo, essendo ciascuno di noi “troppo angusto per comprendere se stesso” (ivi, X, 8,15), la discesa in interiore nomine, dove abita la verità, comporta anche un ulteriore sprofondarsi fuori di noi stessi, in una rischiosa discesa verso quella zona, in grandissima parte a noi sconosciuta, che è la verità stessa.

Certo, sarebbe bene che il disarmo, il privarsi degli aculei, fosse bilaterale, che valesse tanto per coloro che si richiamano alla dimensione religiosa, quanto per gli altri, uniti dalla comune ricerca di pensieri e sentimenti che ci sottraggano alla superficialità e all'indifferenza. Il rispetto per la religione (e la sfera del sacro in genere) deve nascere dal considerarla anche un tesoro accumulato da millenni, di speranze e di timori. Dio è il più grande progetto di donazione di senso al mondo e a ciascuno di noi, una costruzione culturale che alimenta l'arte, la filosofia e l'esistenza di ciascuno, anche di chi “non crede” (o, meglio, che crede in altre cose). Il rispetto per il laico deve nascere dal riconoscimento che esistono anche altre vie per la ricerca della verità.

Con l'auspicio di un incontro fecondo nel Cortile dei Gentili, condivido perciò le parole di Benedetto XVI in Caritas in veritate, allorché afferma che “un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali”. Lo stesso si può dire, in maniera quasi complementare: che una pretesa di verità senza attenzione per le ragioni altrui è un atto di superbia.

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