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Il bene comune e i Francescani

Redazione
Pubblicato il 30-11--0001

Tra le scuole di pensiero sul “bene comune” quella francescana è stata la più studiata perché, sul piano della dottrina, arriva a conclusioni che, nonostante siano state generate nel Medioevo, oggi ci appaiono assai moderne. Sulla scia della rivoluzione commerciale che accompagnò i secoli XII e XIII, teologi e canonisti si videro impegnati nel fornire risposte agli interrogativi suscitati dal fenomeno dei banchieri e dall’attività dei commercianti. A differenza degli altri, questi due mestieri non apportavano nulla al bene comune cittadino, ma solo al privato. 



Per la teologia francescana medievale il concetto di bene comune non è connesso all’individuo preso nella sua singolarità, ma esclusivamente in quanto è in relazione con l’altro. Comune è il bene della relazione stessa tra gli individui ed è un bene proprio della vita in comune. È comune ciò che non è solo di proprietà perché tale è, invece, il bene privato, né ciò che è di tutti indistintamente in quanto è tale il bene pubblico. Il vantaggio che ciascun individuo ha dal bene comune per il fatto di fare parte di una data comunità non può essere separato dal vantaggio che pure altri hanno da esso. In altre parole, non si deve realizzare contro gli altri l’interesse del singolo ma in comune con gli altri.



Si tratta di argomentazioni molto complesse, ma che nei secoli medievali coinvolsero i dibattiti di molti laboratori di idee in ambito francescano. I teologi francescani si impegnarono al fine di applicare razionalmente giustificazioni bibliche al divieto dell’usura nei casi concreti della vita quotidiana. Quella del francescano Pietro di Giovanni Olivi (ca. 1248-1298), predicatore francese, fu una tra le migliori riflessioni sulla definizione di bene comune. L’ambito economico divenne il luogo dove Olivi fu invitato ad entrare per indagarlo ed estrapolare concetti sul valore economico delle cose, sul loro giusto prezzo. Secondo il Frate francescano le attività del vendere e del comprare sono volte a soddisfare i bisogni della vita umana. Per cui il valore dei beni scambiabili è determinato dal valore d’uso che noi ne facciamo. È questo uno dei luoghi privilegiati dai quali cogliere l’importanza attribuita alla nozione di bene comune secondo la scuola di pensiero francescana. Sono chiari poi, per Olivi, gli elementi che determinano la stima del valore delle cose: essi sono la rarità e gli elementi soggettivi. È anche la considerazione del lavoro e del rischio necessario a produrre il bene a determinare il prezzo, ad esempio, di un salario.



Nel piano prospettato da Olivi, il singolo individuo è chiamato a conseguire e ad accrescere il bene della comunità e a rispettare, cioè, il bene degli altri: il soggetto, dunque, unendosi in società con gli altri individui per il suo bene, non è più isolato. A partire da Olivi, e per i teologi francescani successivi, la comunità è il luogo in cui si vive un costante sistema di rapporti tra gli individui, non basati sull’egoismo individualistico ma posti nella modalità di scambi fruttuosi per la collettività. L’usura è intesa come un’azione anti economica rispetto alla comunità e, dunque, è un’attività di pura speculazione monetaria. La distinzione tra guadagni giusti e ingiusti, derivanti dall’utilizzo del denaro, risulta così legata alla nozione di capitale individuata da Olivi, e il guadagno è giusto quando si presenta semplicemente come il risultato di un lavoro. Ma alla fine del XIV secolo, soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, il fenomeno del prestito ad interesse si diffondeva a macchia d’olio. Si palesava una realtà dagli effetti distorsivi e destinata a perdurare nel tempo.

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