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Crocco: i conflitti religiosi nel mondo

Raffaele Crocco ANSA/ UFFICIO STAMPA OXFAM ITALIA
Pubblicato il 20-10-2018

Aveva ascoltato e aveva parlato, lasciando un segno profondo, spiegando che non serve la guerra

Chissà cosa avrebbe pensato Francesco: lui, in piena retorica e mistica da “guerra santa”, a incontrare il nemico ci era andato. Aveva visto il sultano al-Malik al-Kamili, lo aveva ascoltato e aveva parlato, lasciando un segno profondo, spiegando che non serve la guerra.

Era il 1219. Quasi nove secoli dopo, siamo ancora alle prese con guerre più o meno sante, che hanno nella religione una benzina formidabile per trovare gente disponibile ad ammazzare e a farsi ammazzare. Voglio essere chiaro: per quello che riesco a capire occupandomi da trent’anni di guerre, la religione non è mai la “causa vera” di una guerra. E’ più banalmente e sempre uno dei modi migliori per alimentarla e farla diventare terribile e totale. Il nemico religioso diventa qualcuno da distruggere, perché impuro, indegno. Può essere abbattuto senza provare colpa o rimorso, anzi con la certezza di una qualche ricompensa ultraterrena.

Si creano, quindi, armate formidabili di fanatici senza scrupoli, attorno alla guerra santa. Tornata di moda, per altro, proprio negli ultimi decenni. E’ su base religiosa, infatti, la guerra che l’Arabia Saudita sunnita ha scatenato contro lo Yemen dei ribelli houthi, sciiti. Guerra infinita, questa, fra le due anime dell’Islam. Oggi però alimenta il più prosaico scontro economico e politico fra due potenze regionali, l’Iran, sciita e l’Arabia Saudita, sunnita, che si combattono su vari fronti, quasi sempre per interposta nazione.

E’ diventato religioso lo scontro fra Palestinesi, musulmani e Israeliani, ebrei. Lo Stato di Israele, da qualche tempo, è diventato, ricordiamolo, uno stato confessionale: non si può più essere israeliani se non si è ebrei. La guerra, vecchia di 70anni per il controllo della terra e delle fonti d’acqua, è stata alimentata ad arte dagli ortodossi delle due parti.

Proseguiamo rapidamente: in Nigeria,  gli integralisti islamici di Boko Haram hanno dichiarato guerra al governo centrale, facendo stragi bei villaggi cristiano o animisti del Sud del Paese. In Asia, gli induisti indiani contendono il confine del Kashmir ai musulmani del Pakistan. In Myanmar, i militari hanno cacciato da casa loro oltre 500mila rohingya, uccidendone migliaia. Li hanno spinti in Bangladesh, perché musulmani e quindi privi del diritto costituzionale di cittadinanza. In realtà, miravano al controllo di un pezzo di territorio potenzialmente ricco di risorse. In almeno 40 Paesi, il ritrovato nazionalismo di matrice religiosa ha portato alla persecuzione reale di almeno 250milioni di cristiani, con esodi di massa – ad esempio nella Siria occupata dall’Isis o riconquistata dall’esercito di Assad – e molte uccisioni. Quasi sempre, la popolazione cristiana rappresenta l’anima “borghese” di uno Stato, la cosiddetta “classe media”, scomoda da governare per chi il potere lo prende con le armi.

Questo il quadro, disegnato rapidamente. Le guerre di religione sono una realtà contemporanea, ma andrebbero affrontate sempre come “effetto”, non come “causa”. La storia ci dice con chiarezza che là dove diritti umani e risorse economiche sono in equilibrio, ben distribuite, là dove la popolazione vive una buona condizione di democrazia e sicurezza sociale, la guerra religiosa sparisce e nascono convivenze ricche di possibilità e futuro. Francesco lo aveva capito nove secoli fa.


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