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«Un lavoro di piccoli passi», la diplomazia di Francesco

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

In un'epoca in cui per molti, a vari livelli, le parole «dialogo» e «diplomazia» sono l'equivalente di buonismo e inconcludente arrendevolezza, quando non sono considerate alla stregua di parolacce,il messaggio che giunge dalle Americhe con il disgelo tra gli Usa e Cuba è significativo.


Ricevendo le credenziali da tredici nuovi ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, Papa Francesco ha parlato della diplomazia come di un «un lavoro di piccoli passi» che avvicina i popoli e semina fratellanza e pace. E parlando a braccio ha detto: «Vi auguro un lavoro fruttuoso, un lavoro fecondo. Il lavoro dell’ambasciatore è un lavoro di piccoli passi, di piccole cose, ma che finiscono sempre per fare la pace, avvicinare i cuori dei popoli, seminare fratellanza fra i popoli. E questo è il vostro lavoro, ma con piccole cose, piccoline. E oggi tutti siamo contenti, perché abbiamo visto come due popoli, che si erano allontanati da tanti anni, ieri hanno fatto un passo di avvicinamento. Ecco, questo è stato portato avanti da ambasciatori, dalla diplomazia. È un lavoro nobile il vostro, tanto nobile». 


Il pubblico riconoscimento tributato al Papa sia da Barack Obama come da Raúl Castro mentre annunciavano il disgelo, ha provocato commenti molto diversi tra loro. C'è chi ha notevolmente enfatizzato il ruolo di Francesco e chi si è invece spinto a scrivere che Bergoglio ha avuto un ruolo minimo, perché quanto avvenuto mercoledì non altro non sarebbe che il risultato di un percorso in atto da molto tempo.


Senza cadere nel rischio di enfatizzare troppo, o di troppo minimizzare, e cercando di seguire la filosofia dei «piccoli passi» a cui ha accennato lo stesso Francesco e le parole misurate usate dal suo Segretario di Stato Pietro Parolin ai microfoni di Radio Vaticana, si possono fare alcune osservazioni. La prima riguarda l'innegabile ritorno al centro della scena internazionale della diplomazia vaticana. Non un ritorno di protagonismo mediatico o effimero: se infatti è vero che ieri la Segreteria di Stato ha confermato pubblicamente il ruolo giocato dalla Santa Sede, è altrettanto vero che le trattative sono avvenute nel più stretto riserbo, senza che filtrassero indiscrezioni. Si tratta piuttosto una ripresa di iniziativa.


«Il tempo è superiore allo spazio» recita una delle massime care a Papa Francesco, che sulla scia dei predecessori rimane ancorato alla cultura del dialogo e dell'incontro. Una seconda osservazione: è innegabile che a questa ripresa di iniziativa abbia contribuito l'approccio del Papa venuto «dalla fine del mondo». Sia gli amici, sia i capi di Stato tradizionalmente più «vicini» alla Santa Sede, sia quelli meno vicini o più lontani, riconoscono la credibilità e la personale testimonianza del vescovo di Roma. 


Una terza osservazione riguarda il ruolo discreto ma importante del Segretario di Stato Parolin, che da nunzio apostolico in Venezuela ha conosciuto da vicino i problemi dell'area, nelle cui mani si trovano in questo momento anche altri dossier delicati, come quello riguardante la Cina. E quelli, tragicamente attuali, che riguardano il Medio Oriente. Per una singolare circostanza, oggi ai vertici della Segreteria di Stato ci sono diplomatici che hanno avuto a che fare con Cuba. Il Sostituto Angelo Becciu è stato nunzio nell'isola caraibica, mentre l'ex «ministro degli Esteri» Dominique Mamberti, appena nominato Prefetto della Segnatura apostolica, aveva comunque visitato Cuba durante il suo incarico.


Il processo è stato certamente favorito dai viaggi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Ed è stato accompagnato dall'episcopato cubano, in primis dal cardinale Ortega y Alamino, come pure dall'episcopato statunitense. Il segnale di speranza arrivato con l'annuncio di Obama e Castro - e ai due leader va ovviamente riconosciuto il merito principale di quanto avvenuto - appare dunque anche il frutto di un percorso che ha visto impegnata la Chiesa cattolica nel favorire il dialogo tra le parti, il dialogo nelle comunità, la fine di un embargo il cui peso grava sulle spalle della popolazione.


Certo, nel mondo teatro della «terza guerra mondiale a pezzi», per citare ancora una volta Francesco, nel mondo dei conflitti ammantati di religione e di fondamentalismo, sono ben altre le situazioni che spaventano, per la loro portata tragica di orrori, e per l'impotenza a cui sembra confinato ogni tentativo di soluzione negoziata. Il Papa e più in generale la Santa Sede finiscono nel mirino dei fondamentalisti d'Oriente e d'Occidente, di chi crede fermamente nelle guerre di religione, di chi auspica l'armagheddon tra gli occidentali «crociati» e l'islam. La tessitura paziente, il «lavoro dei piccoli passi», il cercare di trovare vie praticabili per rendere più stabile o meno instabile la situazione, appaiono come utopie. La Santa Sede rimane talvolta isolata nel suo tenace riferimento multilaterale, nel suo chiedere soluzioni condivise dalle Nazioni Unite, anche quando è necessario «fermare l'ingiusto aggressore».


«Serve più dialogo, non meno dialogo», ripetono Francesco e i suoi collaboratori. Con la coscienza di essere una voce spesso flebile e certamente inerme di fronte alle potenze e ai potenti. Una voce interessata soltanto a salvare vite umane, promuovere la pace, alleviare le sofferenze dei civili. Una voce che non ha avuto né ha da rivendicare meriti, né è preoccupata di piantare bandiere.

(Vatican Insider)

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