fede

Tra tradizione e storia. La cucina dei santi

Redazione Antoniobortoloso.blogspot.com
Pubblicato il 27-09-2018

Il cibo. Certamente per ciò che concerne l’ambito spirituale-cristiano, la prima parola che viene in mente, non può che essere una: l’Eucarestia. Ce lo dice lo stesso Cristo, nel Vangelo di Giovanni: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me, e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. (…) Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.  Chi mangia questo pane vivrà in eterno… e su questo, possiamo esserne certi, i Santi hanno da raccontarci molto, moltissimo. La loro vita è lì, a testimoniarlo. E la loro presenza nella nostra vita continua a dircelo. I Santi, e il banchetto celeste, il banchetto dell’Eternità. Mirabile connubio.

Ma un connubio, con “altro cibo”, molto più – come dire – “profano” possiamo trovarlo nelle loro biografie, nella loro “vita di tutti i giorni”. E, non solo. Ai Santi, tra l’altro, sono legate anche delle tradizioni culinarie, nate – per lo più – dalla devozione popolare. Tradizioni che da secoli si tramandano, e vedono a ogni leopardiano “dì di festa”, il loro risorgere, intatto sia nella memoria collettiva, sia nelle tavole di feste popolari in onore del festeggiato Santo.

Siamo vicini alla festa del Transito di San Francesco. I giorni del tre e quattro ottobre sono vicini. Perché, allora, non iniziare questo excursus (tra il serio e il faceto, così si dice, tra storia e tradizione) nell’ambito culinario dei Santi, proprio con il poverello di Assisi?

“A donna Jacopa, serva dell'Altissimo, frate Francesco, poverello di Cristo, augura salute nel Signore e comunione nello Spirito Santo. Sappi, carissima, che il Signore benedetto mi ha fatto la grazia di rivelarmi che è ormai prossima la fine della mia vita. Perciò, se vuoi trovarmi ancora vivo, appena ricevuta questa lettera, affrettati a venire a Santa Maria degli Angeli. Poiché se giungerai più tardi di sabato, non mi potrai vedere vivo. E porta con te un panno di colore cenerino per avvolgere il mio corpo e i ceri per la sepoltura. Ti prego anche di portarmi quei dolci, che tu eri solita darmi quando mi trovavo malato a Roma”. Questo il testo della missiva che frate Francesco manda a Roma, prima di morire, a donna Jacopa de’ Settesoli. Donna Jacopa, la nobildonna che ospitò, nella Città Eterna, il Santo e che lo aiutò – dandogli anche ospitalità – nella sua dimora.  Questa lettera potrebbe essere presa in esame anche per il suo bellissimo valore “teologico”, e il termine – seppur potrebbe sembrare diversamente – non è  fuori luogo.   Questa natura del corpo, questa corporeità, questo “senso della vita”, vissuta, “gustata” nella bellezza delle piccole cose, come appunto i mustaccioli di donna Jacopa, rientra pienamente nello spirito di San Francesco.

Ma oltre alla Storia, si diceva prima, “la leggenda” è l’altro “campo di indagine” a cui è necessario far riferimento se si parla di cucina e santi. Siamo in Francia, nella Provenza. Un fornaio riempie la sua pâtisserie di gustose e fumanti “navettes”, le barchette. Siamo inondati dal profumo di fiori d’arancio, l’aroma principe della ricetta. A questa golosità sono legate ben due di leggende, e tutte e due di “carattere” religioso. La prima, narra che alla fine del tredicesimo secolo, una nave che recava una statua della Vergine, si incagliò nel porto di Marsiglia. Gli artigiani della città videro in ciò un segno del destino, nonché un segno di protezione. Secondo un’altra leggenda la barca a cui si ispirano le “navettes” rappresenta la barca senza remi sulle quale le tre Marie (Maria Maddalena, Maria Salomé e Maria Jacobé), cacciate da Gerusalemme, approdarono nella vicina Sainte-Maries de la Mer. Ogni due febbraio, a Marsiglia, questi pasticcini a forma di barca, sono benedetti dal Vescovo, e in quella data vengono acquistati nel numero di dodici,  a mo’ di protezione per ogni mese dell’anno.


“Oggi era anche la festa di S. Giuseppe, patrono di tutti i frittaroli cioè venditori di pasta fritta…Sulle soglie delle case, grandi padelle erano poste sui focolari improvvisati. Un garzone lavorava la pasta, un altro la manipolava e ne faceva ciambelle che gettava nell’olio bollente, un terzo, vicino alla padella, ritraeva con un piccolo spiedo, le ciambelle che man mano erano cotte e, con un altro spiedo, le passava a un quarto garzone che le offriva ai passanti…”


E’ lo scrittore Goethe a raccontarci questa scena della Napoli di fine ‘700. E’ facile subito comprendere di quale dolce stia parlando. Lo conosciamo un po’ tutti, e il suo profumo è inconfondibile. Sono loro, le famose “zeppole di San Giuseppe”. La prima ricetta ufficiale, attestata, è però del 1800. Si può trovare nel “Trattato di Cucina Teorico-Pratico” del gastronomo Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino. Le prime parole di tale ricetta, scritta nel 1837, non possono non strappare un sorriso al lettore: “Miette ncoppa a lo ffuoco na cazzarola co meza carrafa d’acqua fresca, e no bicchiere de vino janco, e quanno vide ch’accomenz’a fa lle campanelle, e sta p’asci a bollere nce mine a poco a poco miezo ruotolo…”. Anche per la nascita di questi dolci, si possono annoverare due leggende, riconducibili – appunto – alla figura del Santo, il padre putativo di Gesù. La prima: Maria e Giuseppe, i due illustri genitori, assieme al Bambino, fuggono in Egitto.  Il Vangelo di Matteo lo racconta bene. Ma, in questo, difficilmente (e giustamente) si può trovare, invece, l’episodio che vede San Giuseppe “improvvisarsi” addirittura cuoco di frittelle per poter sostenere la Sacra Famiglia, impegnata in questa emigrazione.


Come – e veniamo all’altra leggenda – difficilmente potremmo leggere nella Scrittura che, oltre al lavoro di falegname, Giuseppe si dedicasse anche a quello di venditore di frittelle, per poter meglio sostenere “le spese di casa”. Certo, il tutto appare abbastanza improbabile, anzi potremmo togliere anche quell’ “abbastanza” e sostituirlo con un bel “del tutto”. Ma sta di fatto che a Napoli, proprio da queste leggende, è nata la tradizione di cucinare questi deliziosi dolci, proprio nel giorno dedicato al Santo, il 19 marzo.


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