fede

La ricchezza lo aveva reso cieco, guardare oltre per arricchirsi davanti a Dio

Edoardo Scognamiglio
Pubblicato il 16-05-2017

La parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone

Vorrei riprendere una meditazione di papa Francesco del 25 febbraio scorso, intitolata Il nome e l’aggettivo. Lo spunto è offerto dalla parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone. Quest’ultimo si è trovato in una condizione definitiva di morte, di esclusione dalla vita, dall’amore, per sua libera scelta.

È l’inferno, quella solitudine irreversibile che accompagna chi si è illuso di essere sulla via della vita e di attendere da Dio una ricompensa per i risultati raggiunti: ricchezza, fama, potere, gloria… In realtà, ci ricorda papa Francesco, il ricco epulone – di cui non sappiamo neanche il nome – è chiuso in se stesso ed è definito dagli altri con un aggettivo e non con un nome proprio di persona. Egli non è in grado di sentire i bisogni degli altri, di guardare alle necessità concrete del povero Lazzaro.

È forse questa la condizione di morte nella quale viviamo: siamo troppo “autocentrati”, guardiamo solo a noi stessi, nella ricerca spasmodica di una felicità effimera, solitaria, egoistica. A volte non abbiamo la forza di guardare oltre, di stare accanto a chi soffre. Eppure nella Bibbia la ricchezza è segno della benedizione divina, di protezione. Dov’è che il ricco epulone ha sbagliato?

Il Papa ci interroga personalmente: «la mia gioia è “nell’uscire da me stesso per andare incontro agli altri, per aiutare”, oppure “la mia gioia è avere tutto sistemato, chiuso in me stesso?”». Lazzaro, ha aggiunto il Papa, con i suoi bisogni e le sue miserie, le sue malattie, «era proprio il Signore che bussava alla porta, perché quest’uomo aprisse il cuore e la misericordia potesse entrare». Il ricco, invece, «non vedeva», «era chiuso» e, «per lui, oltre la porta non c’era niente».

Il ricco epulone non aveva compreso che amare ed essere amati è la risposta al problema dell’uomo e al senso della vita. La ricchezza lo aveva reso cieco, incapace di vedere le necessità del povero che gli stava accanto. La cecità, infatti, subentra in noi nel momento in cui non sappiamo arricchirci (in ogni senso) davanti a Dio, ossia guardando ai bisogni del prossimo. Il ricco epulone ha confidato solo in se stesso, chiuso nei suoi beni, incapace di guardare oltre per accogliere l’altro. È curioso: in ebraico, la radice del verbo credere e della stessa fede (amen) è la medesima di quella del termine mammona (‘mn) che indica la ricchezza come idolo, quasi un’altra divinità.

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