fede

Il timbro della misericordia, dalle prime costituzioni cappuccine a Papa Francesco

Felice Accrocca Maestro di San Francesco - Perugia, Galleria Nazio
Pubblicato il 30-11--0001

Nella lettera apostolica Misericordia et misera Papa Francesco invita i sacerdoti «a prepararsi con grande cura al ministero della confessione» e chiede loro «di essere accoglienti con tutti; testimoni della tenerezza paterna nonostante la gravità del peccato; solleciti nell’aiutare a riflettere sul male commesso; chiari nel presentare i principi morali; disponibili ad accompagnare i fedeli nel percorso penitenziale, mantenendo il loro passo con pazienza; lungimiranti nel discernimento di ogni singolo caso; generosi nel dispensare il perdono di Dio».

Come Gesù, il ministro di Dio dev’essere «magnanimo di cuore, sapendo che ogni penitente lo richiama alla sua stessa condizione personale: peccatore, ma ministro di misericordia» (n. 10). Non sempre la Chiesa ha utilizzato tali accenti, come riconobbe Giovanni XXIII aprendo il concilio Vaticano II. Papa Roncalli asserì infatti che in ogni tempo la Chiesa si era opposta agli errori, spesso anche condannandoli «con la massima severità. Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo — disse — preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore». La linea ora tracciata da Papa Francesco trova comunque straordinari precedenti nella storia della Chiesa, tanto che si potrebbe scrivere una storia della clemenza e una del rigore, una della misericordia e una della giustizia, avendo peraltro presente che si tratta di due facce di un’unica medaglia.

Si prendano a esempio le prime costituzioni cappuccine, che hanno normato, con successivi aggiornamenti, la vita dell’ordine fino al 1968, lasciando una traccia profonda nella vita dei frati. Nel 1529 pochi di loro, riuniti ad Albacina, stilarono le prime ordinazioni capitolari che ressero la nascente famiglia religiosa fino al 1536, quando, a seguito dello svolgimento del capitolo di Roma-Sant’Eufemia, furono stilate le costituzioni che sarebbero rimaste in vigore fino al dopo concilio. Nelle ordinazioni stabilite ad Albacina la preoccupazione principale sembrò essere quella di garantire ai frati una vita ritirata nel rigido rispetto di una quotidianità fissata nei dettagli. Con poca frequenza si parlava di amore e mai si usò il termine “misericordia”.

 Nelle costituzioni del 1536, invece, sotto l’influsso di uomini come Bernardino Ochino, Giovanni da Fano, Bernardino d’Asti, il tema dell’amore era indubbiamente prioritario: nei loro rapporti con Dio i frati venivano infatti invitati a «dirizzare» a Lui «tutti li pensieri», a Lui «voltar tutti l’intenti e desideri nostri, con ogni possibile impeto di amore, acciò con tutto el core, mente e anima, forze e virtù, con actuale, continuo, intenso e puro amore ci uniamo al nostro optimo Patre» (art. 63). Nei loro rapporti fraterni dovevano inoltre mantenere «un core et una anima», amarsi «cordialmente, supportando li difetti l’uno de l’altro, sempre exercitandosi nel divino amore e fraternal carità» (art. 139).

Una tale impostazione lascia emergere con chiarezza il sostrato di tutta una letteratura spirituale che, attraverso opere come il Dialogo della unione spirituale de Dio con l’anima di Bartolomeo Cordoni da Città di Castello, affondava le proprie radici nello Speculum simplicium animarum della beghina Margherita P o re t e . In questo quadro di riferimento acquistano piena luce le disposizioni sulla confessione. Nella mente dei legislatori i penitenti erano essenzialmente altri frati, visto che nessuno di loro poteva confessare «seculari, senza licenzia del capitulo o del padre vicario generale» (art. 90), scelta poi ampiamente superata; le norme varate imprimevano tuttavia un timbro che i frati non potevano non mantenere anche nei riguardi degli estranei, visto che, «per nutrire la carità», si doveva comunque ricevere «con ogni possibile umanità cristiana» (art. 93) qualsiasi persona che bussasse ai conventi.

Ebbene, ai frati confessori veniva intimato di tenere a mente che il «padre san Francesco era solito dire che, se volevamo relevare uno che è caduto, bisogna inclinarci per pietà, sì come fece Cristo, piissimo Salvatore, quando li fu presentata l’adultera, e non star con rigida iustizia e crudeltà in sul tirato» (art. 95). Dovevano inoltre considerare che «se Dio con rigida iustizia avesse a iudicarci, pochi o nisciuno si salvarebe». Nell’imporre la penitenza si chiedeva poi sempre di avere «l’o cchio aperto di salvare e non perdere l’anima e la fama di quel povero frate», sapendo che «ognun di noi farebbe molto peggio se Dio con la sua grazia non ci preservasse». Il timbro della misericordia, peraltro, prevaleva anche allorché si ribadiva l’esigenza della giustizia.

I confessori venivano invitati a considerare che «non punire chi pecca è uno aprire la porta d’ogni vizio»: essi, tuttavia, «con misericordia» dovevano imporre «la condigna penitenza», perché «ne le correzione e punizione de’ frati, non se observi la subtilità de le lege, o vero le iudiciarie tele» (art. 96). Non le sottigliezze della legge, ma la misericordia, capace di andare oltre la giustizia senza tradirla: il magistero di Papa Francesco trova così nella primitiva legislazione cappuccina un luminoso precedente. (Osservatore Romano)

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