fede

GIOVEDI' SANTO, LA LAVANDA DEI PIEDI. LA STRADA PERCORSA DA FRANCESCO D'ASSISI

Edoardo Scognamiglio
Pubblicato il 12-04-2017

I ministri e i servi sono coloro che si distinguono per la capacità di servire i fratelli. Essi, come ogni servo, sono consapevoli di svolgere un’azione temporanea che non li eleva nella comunità a nessun alto rango o titolo. Semplicemente, come il figlio dell’uomo, sono “servi del Regno” e, ancora, “servi inutili”. Hanno il compito di custodire nel bene i fratelli[1]. È qui racchiuso il senso della loro responsabilità. L’autorità è un’autentica forma di diakonia: servizio d’amore reso ai fratelli.

Francesco, seguendo radicalmente la logica del Vangelo – le orme del Signore Gesù Cristo –, inverte radicalmente il senso dell’autorità, riconoscendo al potere un nuovo significato. Potremmo dire che l’autorità subisce un’autentica metànoia o conversione: dal potere-dominio al potere-servizio (cf. Mc 10,45). D’altronde Gesù stesso, che è maestro e Signore (cf. Gv 13,12-15), sta in mezzo ai discepoli come colui che serve (cf. Lc 22,27). L’autorità è un servizio d’amore ai fratelli: «Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua propria vita in riscatto per molti [per tutti]» (Mc 10,44-45). Questa impostazione dell’autorità dovrà distinguere la vita dei frati: né domineranno come padroni assoluti, né opprimeranno come i grandi della terra. Proprio il contrario: essi libereranno e serviranno. Il fondamento di questa rivoluzione è la vita di Cristo.

Francesco è consapevole dell’esperienza di Cristo che si è abbassato-svuotato e umiliato fino alla morte di Croce (cf. Fil 2,6-11). Perciò, la missione dei frati, come quella dei discepoli, è servire, sino a farsi schiavi degli altri (cf. Mt 20,27; Mc 10,44), esattamente come l’apostolo Paolo concepiva il suo proprio ministero in modo tale che il termine “schiavo” (doûlos) arrivò ad essere il termine tecnico per definire i capi delle comunità cristiane (cf. Rm 1,1; Gal 1,10; Fil 1,1; Col 1,7; 2Tm 3,24; Tt 1,1; Gc 1,1; 2Pt 1,1). Il Poverello auspica un’autorità non di preminenza e di dominio, bensì di minorità e di servizio. Quelli che presiedono le comunità non devono assumere titoli che li collochino al di sopra degli altri. Il ministero non è una dignità, ma un servizio. Questo è sconcertante. Nessuna logica umana giungerà a concludere che «gli ultimi saranno i primi» (Mc 10,31); o che «il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve» (Lc 22,24-30); e «chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti» (Mc 10,44).

Ciò che rende credibile l’autorità è il servizio, una diakonia d’amore e di comunione che assume lo stile della kenosis, ossia dell’annientamento (svuotamento di sé, e come modello il buon pastore, che dà la vita per le sue pecore. Egli non si userà per distruggere, ma per costruire, per sanare, per riconciliare (cf. 2Cor 11,10). Il gesto della lavanda dei piedi di Gesù durante l’ultima cena è richiamato da Francesco come simbolo efficace e carico di contenuto per la sua comunità, per tutti i frati che sono chiamati a lavarsi i piedi gli uni gli altri[2].


[1] Cf. ivi XI,1-13: FF 36-37. Nel capitolo XI della Regola non bollata, Francesco esorta tutti i frati – e non soli i ministri – a considerarsi “servi inutili”. Adirarsi con il fratello significherebbe essere condannato al giudizio (cf. Mt 5,22). Si parla ancora di amore scambievole, vero, concreto. I frati devono percorrere la “porta stretta” (cf. Mt 7,14) del perdono e della misericordia per entrare nel Regno dei cieli. Non vi è un richiamo esplicito allo sforzo morale, alla pratica ascetica, per entrare nel Regno. Lo sforzo è da compiere in se stessi per il bene del fratello, contro ogni facciata e ipocrisia di coloro che pretendono di rispettare esteriormente o solo dal punto di vista giuridico la Regola. Il capitolo X della Regola bollata richiama più volte l’uso della carità e della misericordia verso i frati.

[2] Cf. Regola non bollata VI,3: FF 23.

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