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La rinascita di Damasco: Europa non ci hai difeso

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

«Se è arrivata la tua ora, muori pure se te ne stai chiuso in casa tutto il giorno. Tanto vale uscire e vivere, anche fra bombe e kamikaze». Looman Rustom è un web designer che si barcamena fra mille lavori. Ha 32 anni e non ha mai lasciato Damasco. Incarna lo spirito della città. Imprenditoriale. Che si arrangia. Che ama godersi la vita il più possibile. Quattro anni di guerra, di assedio, sono stati cancellati di colpo.

La tregua dura da un mese. Le strade sono ingolfate di traffico nelle sere del weekend, che comincia il giovedì sera. Nei quartieri dei locali, come Al-Lawan, è difficile trovare posto al ristorante. Il suq ottomano di Al-Hamidiya è un fiume in piena nelle ore di punta. Le fontane del sobborgo dei Mouhajarin, abitato dall’alta borghesia e dove c’è la villa di Bashar al-Assad, sono illuminate. Al mattino, nei caffè di Al-Nawafara moltissime ragazze che bigiano la scuola, con abbigliamenti che vanno dai veli neri alle scollature sfrontate.




I colpi di mortaio dal quartiere orientale di Jobar, a meno di un chilometro dalle mura che delimitano la città storica, sono caduti fino a poche settimane fa a Bab Touma, in pieno centro. Un proiettile è caduto persino sulla cupola della Moschea degli Ommayyadi, dell’VIII secolo, forse la più bella al mondo, dove c’è il cenotafio di San Giovanni Battista, il minareto detto di Gesù, e reliquie di Hussein venerate dagli sciiti. I segni dei combattimenti sono stati cancellati.

La strategia Assad-Putin ha spezzato l’assedio prima a livello militare. La Grande Damasco contava prima della guerra cinque milioni di abitanti: la fascia di banlieue in mano ai ribelli, che andava da Al-Moadamiyeh alla piana di Ghouta, è stata spezzata in tante sacche isolate. Poi la tregua ha completato l’opera perché ha diviso gli insorti fra quelli inclusi e quelli no, cioè i terroristi di Al-Nusra e Isis. Per la prima volta dopo quattro anni si può percorrere l’autostrada Damasco-Homs anche di notte. Solo una lunga deviazione evita il sobborgo di Douma, da dove i cecchini sparano ancora.



Le elezioni 

Ora siamo alla fase politica. Il raiss deve riconquistare il «bazar», la borghesia commerciante sunnita. Che ha voglia di tornare al business. Al centro del suq, nella gelateria più famosa del mondo arabo, Bakdash, il patron Mouafad, 76 anni, un haji, cioè vecchio saggio che ha fatto il pellegrinaggio, riassume così la situazione: «Abbiamo resistito da soli contro 80 nazioni. Finché il terrorismo è arrivato anche in Europa e allora vi siete svegliati. La tregua è la nostra vittoria. Ora la Siria risorgerà da sola. Perché i siriani sono unici, creano ricchezza dal nulla».

Le elezioni fra dieci giorni dovranno dare un sigillo a una nuova intesa fra borghesia sunnita e l’amministrazione politico-militare dominata dagli alawiti. L’opposizione politica «interna», accettata dal regime, è poco più che una formalità, con 5 seggi sui 250 del Parlamento attuale. Questa volta però ci sono molti candidati indipendenti e i manifesti, in piccolo formato per non disturbare le gigantografie di Assad, tappezzano le strade e le vetrine dei negozi. Fra i partiti fuori dal blocco guidato dal Baath, al potere da mezzo secolo, si prevede un buon risultato per il Pyd curdo e il nasseriano Unione araba di Hassan Abdul Hazim.



I cristiani 

La comunità cristiana è invece da tempo tornata fra le braccia del raiss. Nel quartiere di Bah al-Sharqui, lungo la Via Recta percorsa da San Paolo, ci sono tutte le confessioni del mondo, dai maroniti agli armeni, dai cattolici francescani ai greco ortodossi. I cristiani di Damasco sono i più arrabbiati con l’Europa. Si sentono traditi. «Prima avete appoggiato i ribelli islamisti, ora accogliete più volentieri i profughi musulmani che quelli cristiani» accusa il monaco Mousa Houri, uno dei consiglieri del Patriarca Ignatius. «Ma noi cristiani di Damasco non scapperemo mai - conclude lisciando la barba nel suo ufficio alla Cattedrale Mariamita - questa è la nostra terra, non ne abbiamo altra». Il terrore islamista contro i cristiani, con decine di chiese distrutte in tutta la Siria, ha compattato le diverse comunità. Gli ortodossi, compreso Mousa Houri, amano Papa Francesco e apprezzano il fatto che il nunzio cattolico, monsignor Pier Mario Zenari, non abbia mai lasciato Damasco, neppure quando i razzi colpivano i quartieri centrali.

Come ad Al-Lawan, nella zona sudoccidentale, dove nell’autunno del 2012, si è combattuta una battaglia, con blindati e carri armati. Al check-point di accesso al viale che sale verso la zona dei locali i soldati, giovanissimi, hanno l’aria rilassata. Alcuni «non vanno a casa da tre anni» e, con la tregua che regge, sentono aria di licenza. I parcheggiatori dei ristoranti si scaldano ai fornelletti elettrici nell’aria fredda della sera. I prezzi sono un terzo di quelli di Beirut, ma anche gli stipendi medi, 150 dollari la mese.




I militari di leva ne prendono 30. Il rancio è quello dei contadini poveri, pane e legumi. Ma ora l’entusiasmo arriva dalle vittorie in sequenza. Ieri è stata la volta di Al-Qaryatayn, una cittadina in una zona montuosa fra Homs e Palmira. L’Isis l’aveva presa nell’agosto del 2015 e aveva portato via 230 ostaggi. Dopo la liberazione di Palmira gli islamisti sono rimasti isolati e hanno dovuto cedere. Le bandiere nere si allontano da Damasco. Assad sta vincendo la sua scommessa. (Giordano Stabile - La Stampa)

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