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Il Papa: è la terza guerra mondiale. Sull'Iraq: è l'Onu che deve decidere come fermare l'aggressore

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

San Francesco: fa di me uno strumento della tua pace

Le forze miliari Usa da poco hanno cominciato a bombardare i terroristi in Iraq, per prevenire un genocidio e proteggere il futuro delle minoranze. Santità, lei approva questo bombardamento americano Iraq?

«Grazie della domanda così precisa. In questi casi dove c’è una aggressione ingiusta, soltanto posso dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto». Papa Francesco parla a una settantina di giornalisti di tutto il mondo nel volo che lo riporta a Roma dalla Corea del Sud. Risponde a tutto e senza perifrasi, com’è sua abitudine. Chiaro che gli si chieda subito degli jihadisti dell’Isis. «Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare o fare la guerra. Dico: fermarlo. I mezzi con i quali si possono fermare dovranno essere valutati. Fermare l’aggressione ingiusto è lecito. Ma dobbiamo avere memoria, pure: quante volte, sotto questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una bella guerra di conquista? Una sola nazione non può giudicare come si ferma questo, come si ferma un aggressore ingiusto. Dopo la Seconda guerra mondiale, sono state create le Nazioni Unite, là si deve decidere: c’è un aggressore ingiusto, come lo fermiamo? Soltanto questo, niente di più. Secondo, le minoranze. Parlano dei poveri cristiani che soffrono; i martiri, è vero, ci sono tanti martiri… Ma qui ci sono uomini e donne, minoranze religiose non tutte cristiane e tutte sono uguale davanti a Dio. Fermare l’aggressore ingiusto è un diritto che l’umanità ha. Ma è anche un diritto che ha l’aggressore di essere fermato perché non faccia del male».

Andrà a pregare in Iraq o in Kurdistan?

«Io ho incontrato poco tempo fa il governatore del Kurdistan, lui aveva un pensiero molto chiaro sulla situazione, come trovare soluzioni, ma era prima dell’inizio di quest’ultima aggressione. Sono disponibile ad andare in Iraq e credo di poterlo dire: quando con i miei collaboratori abbiamo avuto notizia di questa situazione, delle minoranze religiose e anche il problema in quel momento del Kurdistan che non poteva accogliere così tanta gente, abbiamo pensato tante cose. Abbiamo scritto prima di tutto il comunicato che ha fatto padre Lombardi. Dopo, questo comunicato è stato inviato a tutte le nunziature perché fosse trasmesso ai governi. Poi abbiamo scritto al Segretario generale delle Nazioni Unite e abbiamo deciso di mandare là un mio inviato personale, il cardinale Filoni. Alla fine abbiamo detto che se fosse stato necessario, dopo il ritorno dalla Corea, potevo andare lì, era una delle possibilità. Questa è la mia risposta: sono disponibile! In questo momento non è la cosa migliore da fare, ma sono disposto a questo».

Lei è il primo Papa che ha potuto sorvolare la Cina. Il telegramma è stato accolto senza commenti negativi. Passi in avanti di un dialogo possibile? E avrebbe desiderio di andare in Cina?

«Quando all’andata stavamo per entrare nello spazio aereo cinese, io ero nella cabina dei piloti e uno di loro mi ha fatto vedere un registro, mi ha detto: mancano dieci minuti per entrare nello spazio aereo cinese, dobbiamo chiedere autorizzazione, è una cosa normale, sempre si chiede ad ogni Paese. E io ho sentito come chiedevano autorizzazione, come si rispondeva, sono stato testimone di quello. E il pilota mi ha detto: adesso parte il telegramma. Non so come avranno fatto. Poi mi sono congedato da loro, sono tornato al mio posto e ho pregato tanto per quel bello e nobile popolo cinese. Popolo saggio. Io penso ai grandi saggi cinesi, una storia di scienza, di saggezza. Anche noi gesuiti abbiamo una storia, lì, con padre Ricci. Se io ho voglia di andare in Cina? Ma sicuro! Domani! Noi rispettiamo il popolo cinese, soltanto la Chiesa chiede libertà per il suo mestiere, per il suo lavoro: nessuna altra condizione. Poi non bisogna dimenticare quella lettera fondamentale per il problema cinese che è stata lettera inviata ai cinesi da Benedetto XVI. Quella lettera oggi è attuale, ha attualità, rileggerla fa bene. E sempre la Santa Sede è aperta ai contatti, sempre. Perché ha una vera stima per il popolo cinese».

La preghiera per la pace in Terra Santa è stata un fallimento?

«La preghiera per la pace assolutamente non è stato un fallimento. L’iniziativa di pregare insieme è venuta dai due presidenti, dal presidente dello Stato di Israele e dal presidente dello Stato di Palestina. Loro mi hanno fatto arrivare questa inquietudine. Poi potevamo farla là durante il viaggio, ma non si trovava il posto giusto, il costo politico per ognuno sarebbe stato molto forte, se andava da una parte o dall’altra. La nunziatura era un posto neutrale, ma per arrivare in nunziatura il presidente dello stato di Palestina doveva entrare in Israele, la cosa non era facile. E loro mi hanno detto facciamo in Vaticano, noi veniamo. Questi due uomini sono uomini di pace, sono uomini che credono in Dio e hanno vissuto tante cose brutte, tante cose brutte, e sono convinti che l’unica strada per risolvere la questione è il negoziato, il dialogo, la pace. La sua domanda adesso: è stato un fallimento? Io credo che la porta sia aperta. Con il Patriarca ecumenico Bartolomeo si voleva proprio che fosse comune la forza della preghiera. La pace è un dono di Dio che si merita con il nostro lavoro, ma è un dono. E dire all’umanità che oltre alla strada del negoziato è importante anche quella della preghiera. Dopo questo è arrivato quello che è arrivato. Ma questo è congiunturale. Quell’incontro non era congiunturale è un passo fondamentale dell’atteggiamento umano, una preghiera. Adesso il fumo delle bombe delle guerre non lascia vedere la porta, ma la porta è rimasta aperta da quel momento. Io credo in Dio, credo nel Signore, quella porta è rimasta aperta e chiediamo che Lui ci aiuti».

Dove andrà nel 2015 dopo Filippine e Sri Lanka? In Spagna?

«La signora presidente della Corea, in perfetto spagnolo, a proposito della riunificazione della Corea, mi ha detto: la speranza è l’ultima a morire! Si può sperare ma non è deciso. Quest’anno è previsto l’Albania. Alcuni dicono che il Papa ha lo Esplora il significato del termine: Dove andrà nel 2015 dopo Filippine e Sri Lanka? In Spagna?

«La signora presidente della Corea, in perfetto spagnolo, a proposito della riunificazione della Corea, mi ha detto: la speranza è l’ultima a morire! Si può sperare ma non è deciso. Quest’anno è previsto l’Albania. Alcuni dicono che il Papa ha lo stile di cominciare tutte le cose dalla periferia, ma vado in Albania per due motivi importanti. Primo, perché sono riusciti a fare un governo – ma pensiamo ai Balcani, eh? – un governo di unità nazionale tra islamici, ortodossi, cattolici, con un consiglio interreligioso che aiuta tanto ed è equilibrato e armonico, e questo va bene. La presenza del Papa va dire a tutti i popoli che si può lavorare insieme. Io ho pensato che fosse un vero aiuto a quel popolo nobile… Se pensiamo alla storia Albania, è stato l’unico dei Paesi comunisti che aveva nella sua Costituzione l’ateismo pratico, se andavi a messa era anticostituzionale. Uno dei ministri mi diceva che sono state distrutte 1820 chiese. Distrutte! Ortodosse, cattoliche. E poi altre chiese sono state trasformate in cinema, teatro, sala da ballo… E ho sentito che dovevo andare, è vicina, in un giorno si fa. Poi l’anno prossimo vorrei andare a Philadelphia all’incontro delle famiglie, e sono stato anche invitato dal presidente degli Stati Uniti al congresso di Washington e anche dal Segretario delle Nazioni Unite a New York. Forse andrò nelle tre città insieme. Il Messico: i messicani vogliono che io vada alla Madonna di Guadalupe, si può approfittare di quello ma non è sicuro. La Spagna infine: i reali mi hanno invitato, l’episcopato mi ha invitato, c’è una pioggia di invita per andare in Spagna! A Santiago di Compostela si potrebbe, ma non è deciso, andare al mattino e tornare al pomeriggio. Forse».

Che rapporto ha con Benedetto XVI?

«Ci vediamo. Prima di partire sono andato a trovarlo. Due settimane prima mi ha inviato uno scritto interessante, mi chiedeva un’opinione. Abbiamo un rapporto normale. Forse la mia idea non piace a qualche teologo, io non sono teologo ma penso che il Papa emerito non sia una eccezione. Ha detto sono invecchiato, non ho le forze, ed il suo è stato proprio un bel gesto, di nobiltà, umiltà e coraggio. Anche 70 anni fa i vescovi emeriti erano una eccezione, non esistevano, oggi sono una istituzione. Io penso che il Papa emerito sia già una istituzione, perché la nostra vita si allunga e a una certa età non c’è la capacità di governare bene, perché il corpo si stanca…La salute forse è buona ma non c’è capacità di portare avanti tutti i problemi per il governo della Chiesa. Papa Benedetto ha fatto questa scelta. Può darsi che qualche teologo mi dica che non è giusto, ma io la penso cosi. I secoli diranno se è così. E se io non me la sentissi di andare avanti? Io farei lo stesso di Benedetto. Pregherò, ma farei lo stesso: ha aperto una porta che è istituzionale, non eccezionale. Io ho già detto che è come avere il nonno a casa per la saggezza. Mi fa bene sentirlo. E anche mi incoraggia abbastanza».

Cosa ha provato quando ha salutato stamattina ha salutato le sette «donne di conforto» (rapite durante la guerra dai giapponesi, ndr) alla messa di stamattina?E verrà in Giappone?

«In Giappone sarebbe bellissimo, bellissimo! Sono stato invitato sia dal governo che dall’episcopato. Quanto alle sofferenze…Il popolo coreano è un popolo che non ha perso la dignità. È stato un popolo invaso, umiliato. Ha subito guerre, adesso è diviso. Con tanta sofferenza. Ieri quando sono andato all’incontro con i giovani, ho visitato il museo dei martiri. È terribile la sofferenza di questa gente. Semplicemente per non calpestare la croce. È una sofferenza storica. Ha capacità di soffrire, questo popolo, è parte della sua dignità. Anche oggi c’erano queste donne anziane davanti, a messa. Pensare che con l’invasione sono state da ragazze portate vie, nelle caserme. Loro non hanno perso la dignità. Oggi erano lì, donne anziane, le ultime rimaste. È un popolo forte nella sua dignità. Ma tornando ai martirii, alle sofferenze, a queste donne: questi sono i frutti della guerra. E oggi noi siamo in un mondo in guerra, dappertutto! Qualcuno mi diceva: lei sa, padre, che siamo nella Terza guerra mondiale, fatta a pezzi, a capitoli. È un mondo in guerra dove si fanno queste crudeltà. Vorrei fermarmi su due parole. La prima, crudeltà. Ora i bambini non contano! Una volta si parlava di una guerra convenzionale, ora questo non conta. Non dico che le guerre convenzionali siano cosa buona, no. Ma oggi va la bomba e ammazza l’innocente con il colpevole, il bambino con la donna, la mamma, ammazza tutti. Ma vogliamo fermarci a pensare un po’ al livello di crudeltà a cui siamo arrivati?E questo ci deve spaventare. Non è per fare paura. Il livello di crudeltà della umanità in questo momento è da spaventare un po’. L’altra parola è la tortura. Oggi la tortura è uno dei mezzi dire quasi ordinari nei comportamenti dei servizi di intelligence, dei processi giudiziari...E la tortura è un peccato contro l’umanità, un delitto contro umanità. E ai cattolici dico: torturare una persona è peccato mortale, è peccato grave. Ma è di più: è un peccato contro l’umanità. Crudeltà e tortura. Mi piacerebbe tanto che voi nei vostri media faceste riflessione su oggi come è livello di crudeltà della umanità e cosa pensate della tortura. Credo ci farebbe bene a tutti riflettere su questo.

«Sì, qualcuno me lo ha detto. Io ho preso le vacanze a casa, come faccio di solito. Io ho letto un libro interessante che si titolava: Rallegrati di essere nevrotico. Anche io ho alcune nevrosi…Ma bisogna curarle bene le nevrosi, eh? Dare loro il mate ogni giorno! La mia è che sono un po’ troppo attaccato al mio habitat. L’ultima volta che ho fatto vacanze fuori, con la comunità gesuita, è stato nel ’75. Poi sempre faccio vacanze ma nel mio habitat, cambio ritmo: dormo di più, leggo cose che mi piacciono, sento musica, prego di più. A luglio tante volte ho fatto questo. È vero, il giorno che ho dovuto andare al Gemelli, fino a dieci minuti prima ero lì ma non ce la facevo. Erano giorni molto impegnativi, ma penso che dovrei essere più prudente».

Quando la folla diceva «Francesco, Francesco», a Rio, lei rispondeva «Cristo, Cristo». Oggi lei come gestisce questa immensa popolarità? Come la vive?

«Io la vivo ringraziando il Signore che il suo popolo sia felice, augurando al popolo il meglio. La vivo come generosità del popolo. Interiormente cerco di pensare ai miei peccati, ai miei sbagli, per non “credermela”(montarmi la testa, ndr), perché io so che questo durerà come me, due o tre anni, e poi via, alla casa del Padre! La vivo come la presenza del Signore nel suo popolo che usa al vescovo che è il pastore del popolo per manifestare tante cose. La vivo più naturalmente di prima, perché prima mi spaventava un po’».

Come vive in Vaticano, al di là del lavoro?

«Cerco di essere più libero. Ci sono appuntamenti di ufficio, di lavoro, la vita per me è la più normale che si possa fare. Mi piacerebbe uscire ma non si può, non si può. Poi a Santa Marta faccio la vita normale di lavoro, di riposo, chiacchiere… Se mi sento prigioniero? No. All’inizio sì, ma sono caduti alcuni muri… per esempio, per ridere: il Papa non poteva scendere in ascensore da solo, subito qualcuno veniva ad accompagnarlo! Ma tu vai al tuo posto che io scendo in ascensore da solo! Ora è finita la storia…La normalità, una normalità».

La sua squadra, il San Lorenzo, è diventata campione di America per la prima volta, come lo sta vivendo?

«È una buona notizia, dopo il secondo posto del Brasile! L’ho saputo a Seul, me lo hanno detto. E mi hanno detto che mercoledì vengono all’udienza pubblica. Per me il San Lorenzo è la squadra di cui tutta la mia famiglia era tifosa».

Quando uscirà l’enciclica sulla salvaguardia del creato?

«Di questa enciclica, ho parlato tanto con il cardinale Turkson e anche con altri e ho chiesto al Turkson di raccogliere tutti i contributi arrivati. Prima del viaggio, il cardinale mi ha consegnato la prima bozza. È grossa così, un terzo di più dell’Evangelii Gaudium. È la prima bozza. Si tratta di un problema non facile perché sulla custodia del Creato, anche dell’ecologia - c’è una ecologia umana - si può parlare con una certa sicurezza solo fino ad un certo punto. Poi vengono le ipotesi scientifiche, alcune abbastanza sicure, altre no. E una enciclica che deve essere magisteriale deve andare avanti soltanto sulle sicurezze, sulle cose che sono sicure. Se il Papa dice che il centro dell’universo è la terra e non il sole, sbaglia perché dice una cosa che scientificamente non va. Così succede adesso, dobbiamo fare lo studio paragrafo per paragrafo. Credo che diventerà più piccola perché bisogna andare all’essenziale, è quel che si può affermare con sicurezza. Si può mettere nelle note a piè di pagina che su questo c’è questa ipotesi o quest’altra. Ma darlo come informazione, non nel corpo di un’enciclica che è dottrinale e deve essere sicura».

Che cosa ha pensato davanti al dolore delle «donne di conforto»? E a quello della divisione della Corea?

«Oggi queste donne erano lì perché malgrado tutto quello che hanno sofferto hanno dignità e hanno messo la faccia. E ho pensato questo, ho pensato alla guerra e alle crudeltà delle guerre a queste donne sono state sfruttate, sono state schiavizzate, è crudeltà tutto questo. Ho pensato alla dignità che loro hanno e anche quanto hanno sofferto e la sofferenza è un’eredità. I primi martiri della Chiesa dicevano che il sangue dei martiri è seme di cristiani , voi coreani avete seminato tanto, tanto, per coerenza. Si vede adesso il frutto di quella semina dei martiri. Sulla Corea del Nord so che è una sofferenza, una la so sicuro: che ci sono alcuni parenti, tanti parenti che non possono ritrovarsi, questo fa soffrire, quello è vero. Oggi in cattedrale, dove ho indossato i paramenti per messa, c’era un regalo che mi hanno fatto, una corona di spine di Cristo, fatta con il filo di ferro che divide le due parti dell’unica Corea. E lo portiamo sull’aereo. È la sofferenza della divisione di una famiglia divisa. Io come ho detto ieri parlando ai vescovi, lo ricordo: abbiamo ancora speranza, le due Coree sono sorelle e parlano la stessa lingua. Quando si parla la stessa lingua è perché si ha la stessa madre e questo ci da speranza. La sofferenza della divisione è grande. Io capisco e prego perché finisca».

A che punto è la beatificazione di monsignor Romero?

«La causa era bloccata, si diceva per prudenza, alla Congregazione della dottrina della fede. Adesso è sbloccata. È passata alla Congregazione per i santi e segue la strada normale di un processo, dipende di come si muovono i postulatori. È molto importante farlo in fretta. Perché quello che vorrei è che si chiarisca quando c’è il martirio in odium fidei, sia per confessare il Credo, sia per fare le opere che Gesù ci comanda con il prossimo. Questo è un lavoro dei teologi che lo stanno studiando. Dietro Romero c’è Rutilio Grande e ci sono altri. Altri che sono stati uccisi che non sono della stessa altezza di Romero. Si deve distinguere teologicamente tutto questo. Per me Romero è un uomo di Dio. Si deve continuare processo, il Signore deva dare un suo segno, se Lui lo vuole fare, lo farà. Adesso i postulatori devono muoversi perché non ci sono più impedimenti».

Lei ha incontrato i parenti delle oltre trecento vittime del naufragio del traghetto Sewol…

«Quando tu ti trovi davanti al dolore umano, tu devi fare quello che il tuo cuore ti porta a fare. Poi diranno: ha fatto questo perché ha qualche intenzione politica. Si può dire di tutto ma quando tu pensi a questi uomini e a queste donne, a questi papà e mamme che hanno perso i figli, fratelli e sorelle… Al dolore tanto grande di una catastrofe il mio cuore - io sono sacerdote, sai - mi dice che devo avvicinarmi. Lo sento così. So che la consolazione che potrei dare con una parola mia non è un rimedio, non dà vita nuova a quelli che sono morti. Ma la vicinanza umana in questi momenti ci dà forza, c’è la solidarietà. Io ricordo che come arcivescovo di Buenos Aires, ho vissuto due catastrofi: una era un incendio di una sala da ballo, un concerto di musica pop e sono morti 193 giovani. Un’altra volta era una catastrofe con i treni, credo siano mancate 120 persone. In quel tempo ho sentito lo stesso il bisogno di essere vicino. Il dolore umano è forte e se noi in questi momenti tristi ci avviciniamo, ci aiutiamo tanto. Io ho preso questo (indica il fiocco giallo sulla mantellina), l’ho preso per solidarietà con loro. Qualcuno mi ha detto: è meglio toglierlo, lei deve essere neutrale. Ma quando senti il dolore umano non si può essere neutrali». (Corriere)

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