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Il New York Times: «In Medio Oriente è la fine del cristianesimo?»

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

I cristiani in Medio Oriente stanno «male» o «meno male», dichiarava nei giorni scorsi il Patriarca latino Fouad Twal di Gerusalemme, aggiungendo però che la condizione dei palestinesi in Cisgiordania sia senza dubbio ancora migliore rispetto alle sfide affrontate dai cristiani in Siria e in Iraq, soprattutto quelli costretti ad abbandonare le loro case di fronte all’avanzata dei militanti dello Stato Islamico.

A partire dalla storia di Diyaa e Rana, due coniugi di Qaraqosh, la più grande cittadina cristiana nella piana di Ninive in Iraq - 1.500 miglia quadrate incuneate fra il territorio curdo e quello arabo, fino all’estate scorsa quasi il granaio dell’Iraq per le sue ampie coltivazioni di cereali, ma anche fiorenti allevamenti di bestiame e pollame, il centro vivace per numerosi bar e attività commerciali– il racconto affonda le radici agli inizi della fede cristiana in quella terra: sullo sfondo delle testimonianze il terrore che accompagna il dilagare delle milizie dell’ISIS, il prosciugamento dei pozzi (in zone dove le temperature raggiungono i 110°F, più di 43°C), le decapitazioni di massa, la fuga delle popolazioni verso Erbil, la capitale della zona curda, 50 miglia più a nord.

 


La primavera araba non ha fatto che peggiorare le cose. Caduti dittatori come Mubarak in Egitto e Gheddafi in Libia, l’atavica protezione delle minoranze si è conclusa e oggi ISIS sta cercando di sradicare i cristiani e le altre minoranze capovolgendo con la forza delle armi l’antica storia della regione per legittimare la sua impresa millenaria, utilizzando i media per avvertire la popolazione.

 

Per la prima volta il futuro del cristianesimo nella regione è quanto mai incerto. «Per quanto tempo potremo fuggire prima che noi e altre minoranze diventeremo solo un capitolo all’interno di un libro di storia?», dice Nuri Kino, giornalista e fondatore di un gruppo di pressione per la richiesta di azione da parte dell’Occidente. Secondo uno studio Pew, i cristiani sono ora di fronte alla persecuzione religiosa più che in qualsiasi altro momento della storia. «L’ISIS ha solo acceso i riflettori su un problema di sopravvivenza», dice Anna Eshoo, parlamentare democratica della California, i cui genitori provenivano da quella regione e attivamente impegnata per la difesa dei cristiani d'Oriente.

 

Più di recente, la Casa Bianca è stata criticata per rifuggire quasi lo stesso termine «cristiano»: quando quest’inverno  l’ISIS ha massacrato i copti egiziani in Libia, il Dipartimento di Stato ha fatto riferimento alle vittime semplicemente come «cittadini egiziani». Daniel Philpott, docente di scienze politiche all'Università di Notre Dame: «Quando si tace sul fatto che l’ISIS abbia motivazioni religiose né che prenda di mira minoranze religiose, la prudenza dell' attuale amministrazione sembra eccessiva».

La soluzione pratica, secondo alcuni, sarebbe quella di costituire un rifugio sicuro sulla piana di Ninive, magari gestito dall’UNHCR come soluzione permanente, ipotizza Nuri Kino o una soluzione tipo no-fly zone, anche se è tutto da verificare il sostegno internazionale.

 

Per altri la convivenza tra fedi diverse è finita: «Non c’è più il tempo di aspettare le soluzioni», afferma padre Emanuel Youkhana, alla guida di Christian Aid Program a nord dell'Iraq. L'Iraq è un matrimonio forzato tra sunniti, sciiti, curdi e cristiani, e non è riuscito e io, come sacerdote, preferisco il divorzio». (Vatican Insider)

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