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Hong Kong non cede: siamo il nuovo Tibet

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Hong Kong non rispetta gli ordini delle autorità, e continua a lottare per la democrazia e per quel suffragio universale promesso ormai da trent’anni. 

La risposta della polizia è stata dura, con innumerevoli lanci di lacrimogeni, spray urticanti al pepe e perfino pallottole di gomma contro la folla, che non si è però lasciata scoraggiare e ha continuato a portare avanti sit-in sempre più numerosi in diversi punti della città. 

«Hong Kong non sarà mai più la stessa», ha dichiarato Martin Lee, uno dei veterani della lotta per la democrazia di Hong Kong, ex leader del Partito Democratico. Confuso, un po’ sotto choc dopo aver ricevuto in pieno volto i lacrimogeni, si è allontanato controvoglia dalla manifestazione: «Ora la polizia ci impedisce di riavvicinarci. Sto bene, appena sono stato colpito qualcuno dalla folla mi ha versato acqua negli occhi, grazie a loro sono ancora intero. L’utilizzo della forza è totalmente sproporzionato», ha detto, definendo Xi Jinping, il Presidente cinese, «un tiranno». «Gli studenti si stanno comportando benissimo. Sono molto calmi, e molto coraggiosi. E naturalmente hanno del tutto ragione: noi stiamo solo chiedendo quello che ci è stato promesso», dice.  

Come dimostra la sua presenza qui, la lotta per la democrazia a Hong Kong, non è iniziata da pochi giorni: va avanti da diverse decadi, e oggi per le strade della città si danno sostegno reciproco almeno quattro generazioni di attivisti, uniti per la prima volta intorno a un’unica battaglia: che a Hong Kong sia concesso il suffragio universale senza che Pechino pre-approvi i candidati.  

La galassia riformista della città è composita e ha visto ancora una volta tutti scendere in campo: i gruppi religiosi che danno inizio alle giornate con sessioni di preghiera, gli avvocati, che chiedono a tutti di raccogliere le immagini che provano l’uso eccessivo della forza, ma anche ong, tassisti e gente comune, che portano bottiglie d’acqua e cibo ai manifestanti. Intanto, Joshua Wong, il diciassettenne alla testa del movimento studentesco, è stato rilasciato – senza scarpe e occhiali, ma «salvo», come ha dichiarato nel suo primo tweet da libero. 

Ching Cheong, giornalista «patriottico» appartenente alla corrente del movimento che vorrebbe vedere tanto Hong Kong che la Cina democratizzarsi, lamenta che le azioni delle forze dell’ordine «stanno alienando i giovani dalla Cina. Pechino è riuscita a gettare fertilizzante sui germogli di un movimento indipendentista che non aveva tanta forza. Adesso, i giovani vogliono autodeterminazione, dicono che non hanno nulla, nulla a che vedere con la Cina. Ma se Pechino non è abbastanza saggia da calmare le cose, e usa solo la forza, allora Hong Kong può diventare un altro Tibet».  

L’allarme non fa che salire, mentre le autorità dimostrano di non sapere - o volere - dare inizio al dialogo. In un breve messaggio pre-registrato sul sito web del governo di Hong Kong, il Capo dell’Esecutivo, Cy Leung, ha letto un breve comunicato in cui invitava i cittadini a «sgomberare le strade per garantire a lavoratori e studenti di potersi recare al lavoro e a scuola», per poi dover annunciare, poco dopo, la sospensione delle lezioni in tre dei principali distretti della città. Non una parola sulla crisi politica in atto, mentre Pechino ha sinistramente avvertito che il governo cinese «è fermamente contrario ai movimenti illegali», ribadendo «pieno sostegno al governo del territorio». 

Ma le migliaia di manifestanti, in piazza per ottenere elezioni libere nel 2017 senza nessuna imposizione da parte della Cina, hanno continuato tutta la notte a rioccupare le strade appena sgomberate, allargando la protesta anche ad altre zone.  

«Ora non si tratta più degli adulti», dice Bao Pu, editore a Hong Kong: «Questa è diventata la più grande aula per gli studenti. Qui una nuova generazione sta creando la sua coscienza politica, stanno imparando a sfidare il potere, è l’inizio di una lotta che potrà durare anche per anni».  

Fra il fumo dei lacrimogeni e la determinazione degli studenti, l’improbabile esperimento iniziato nel 1997, quando Londra consegnò Hong Kong a Pechino, senza chiedere ai cittadini nemmeno un’opinione, sta mostrando tutti i suoi dolorosi limiti.  La Stampa

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