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GERUSALEMME CONTESA - DI PIERO SCHIAVAZZI

Piero Schiavazzi EPA - ABED AL HASHLAMOUN
Pubblicato il 02-01-2018

È nato un nuovo Medio Oriente, ma non è il "messia" che gli addetti ai lavori attendono da settant'anni: somiglia piuttosto ai falsi profeti che accompagnano l'Armageddon

L'avvento quest'anno si è sdoppiato, sul sacro proscenio di Gerusalemme, annunciando la nascita di due capitali: plateali e fatali. Sovrapponendo e scambiando paesaggi e personaggi, calendari liturgici e politici, l'angelo Gabriele e l'apprendista stregone, stella cometa e stella di Davide, magi persiani e redivivi sultani, eredi sauditi e connubi inauditi, lo zar e lo zio Sam.


Calando in loco novità dirompenti ma distanziandosi non poco dal messaggero, lieve, di lieti eventi, "che reca la pace". Avanzando al contrario con passi grevi, gravi nella cristalleria dello status quo. Rimettendo Gerusalemme al centro ma non in alto, nel suo ruolo di città super partes. Rischiando al contrario di trascinarla giù, sull'orlo del baratro. Facendola uscire dal cassetto, dov'era riposta, per ribaltare contestualmente il tavolo e ridistribuire parti e partnership, tra vecchi e nuovi attori del presepe d'Oriente. Declinandoli dal plurale al singolare.



In luogo di "arabi" e "israeliani", nemici giurati e atavici, bisogna quindi leggere "Arabia" e "Israele", amici e alleati tattici: che non significa esattamente la stessa cosa. Intesa impensabile ieri, resa però plausibile oggi dal ritorno congiunto e in forze di Federazione Russa e Iran, conseguenza dei tre lustri di guerre mesopotamiche – dalla presa di Bagdad, e caduta di Saddam, alla difesa di Damasco, e tenuta di Assad –, che nell'arco 2003-2018 hanno drasticamente modificato il quadro dal Golfo al Mediterraneo, mentre la Palestina segnava il passo e ristagnava nel suo abisso, tra il moderatismo di Abu Mazen e il radicalismo di Gaza Strip.



Non è la "religione" dunque ma la "regione", nelle attuali circostanze, con i suoi smottamenti sismici di potenza e mutamenti sistemici di alleanze, ad azzerare la partita e dare le carte, in un'area che la Sede Apostolica considera da sempre propria zona d'influenza, per anagrafe terrena e divina epigrafe.



Il Monte del Tempio e la cupola d'oro della Moschea di Omar, per una volta, irradiano i riflessi di un conflitto che non ha origine tra le mura della Città Santa, sebbene quest'ultima ne polarizzi e catalizzi sentimenti e schieramenti, ventilando di spaccare addirittura l'Europa, se i paesi dell'Est, tra Praga e Budapest, Bratislava e Varsavia dovessero staccarsi gradualmente dal blocco dell'Ovest e solidarizzare con gli USA.



Dopo avere perduto una mano dopo l'altra e altrettanto terreno fra il Tigri e l'Eufrate, in favore dello zar e degli ayatollah, gli States di Donald Trump sparigliano e ritengono che ormai, per l'America, debba finire l'era dei bluff: puntando alla posta più ambita e operando la mossa più ardita, quella che può far saltare il banco, qualora l'avversario rilanci e "veda", con il tris d'assi inedito di Teheran, Mosca e Ankara.

Lo spazio prende il sopravvento sul tempo, contraddicendo il principio cardine della diplomazia di Francesco: secondo cui non conta occupare territori, bensì avviare processi: "dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente".



Diagnosi psichiatrica che dalle pagine di Evangelii Gaudium, Magna Carta del pontificato, sembra perfettamente attagliarsi – trovandovi applicazione e ispirazione – alla topografia di Gerusalemme, suggerendo una terapia di coppia e necessaria comunione dei beni agli abitanti di un condominio terra-cielo unico al mondo. Con l'obiettivo finale di un parto gemellare, di due capitali, costrette a nascere e crescere insieme, condividendo grembo e altare, augusto e angusto.



Dinanzi all'occupazione di "spazi", praticata indefessamente da Netanyahu e professata ieraticamente da Trump, appariva inevitabile un'accelerazione simbolica dei "processi", per bilanciare concettualmente la fuga in avanti della Casa Bianca: mediante la proclamazione di Gerusalemme Est, capitale dello stato che non c'è, sull'onda del summit convocato a tamburo battente a Istanbul e cavalcato alla stregua del destriero di Saladino da Recep Tayyip Erdoğan.


Se il gesto del tycoon statunitense invera i timori espressi a luglio da Civiltà Cattolica e consolida un fronte integralista ebraico – cristiano tra coloni cisgiordani e predicatori evangelici, dal West Bank al Cotton Belt – Bergoglio di rimando contende al leader turco la guida del blocco antagonista e intende scongiurare la saldatura tra fondamentalismo islamico e causa palestinese, associando ad essa l'impegno preferenziale, politico, e il disegno provvidenziale, salvifico della Chiesa: "Non temere, il Signore è con Te".



Donde l'intervento in "tackle" del sei dicembre, a concludere l'udienza generale del mercoledì e a precedere nel rush dei fusi orari la dichiarazione di Trump, mentre le agenzie cominciavano ad anticiparne la notizia: una escalation che culminerà il giorno di Natale nel messaggio Urbi et Orbi, quinto e più difficile dall'elezione al soglio, affacciando e sporgendo sul villaggio globale.

Nel Risiko mediorientale Francesco aveva del resto mosso per primo, intraprendente e sorprendente, già nel biennio 13/14, ammettendo subito al tavolo le grandi escluse, Russia e Persia, e mettendolo nero su bianco a memoria dei posteri, tramite due lettere d'invito che sigillano il suo debutto in politica estera.



Un esordio clamorosamente scandito dalla missiva del settembre 2013 a Vladimir Putin, patron del G20 di San Pietroburgo, che sbarrava le rotte al Pentagono, determinato a defenestrare Assad, e apriva di converso le porte – e i porti – al Cremlino: legittimandone la mission di protettore dei cristiani, destinata de facto ad evolvere in protettorato sulla Siria.

Percorso inaugurato sulla via di Damasco e proseguito poi audacemente in direzione di Teheran, a gennaio 2014, con un workshop dell'Accademia delle Scienze, il laboratorio sperimentale del Papa, che indicava nel ritorno dell'Iran e nel suo sdoganamento un fattore indispensabile alla chimica degli equilibri tra potenze: posizione adottata in concistoro, di lì a pochi mesi, dal Cardinale Parolin, Segretario di Stato.



Gli abbracci asimmetrici e il rapido incedere, caratteristici del tango, evidenziano l'attitudine di Francesco a muoversi tempestivo, istintivo, come in una milonga di Buenos Aires, rinunciando ai giri di valzer e marcando le distanze da Israele, mai così lontano in quarto di secolo di rapporti ufficiali.

Lo strappo del presidente americano trasforma in quaresima, e vigilia di passione, l'Avvento del pontefice romano: sancendo per entrambi, Stati Uniti e Santa Sede, la "pienezza dei tempi" geopolitici. E portando a compimento l'evoluzione di danze e alleanze, sinergie e strategie, che cambia i contorni e connotati regionali.



È nato un nuovo Medio Oriente, ma non è il "messia" che gli addetti ai lavori attendono da settant'anni: somiglia piuttosto ai falsi profeti che accompagnano l'Armageddon e da cui le scritture insegnano a guardarsi, tra incensi retorici e appelli incendiari. Mentre Natale posiziona lo zenit mediatico sui luoghi santi e il puzzle della guerra mondiale riscopre il suo pezzo centrale. Dirimente ma eternamente mancante.

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