cultura

La guerra raccontata dalle nonne ai nipoti

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Sono sedici donne, cognomi blasonati, tutte nonne, che hanno superato gli 80 e che arrivate a questo traguardo hanno deciso di condividere la loro memoria della guerra. «Mi sono resa conto della mia età e volevo che i miei nipoti conoscessero un pezzo di vita così importante per l’Italia ma anche per la loro famiglia», spiega Olga Millo Diana, la curatrice di questo libro, “La guerra e le bambine” (Edizioni scientifiche italiane). «Volevo raccontare per loro cercando di ricordare il massimo». E i ricordi sono affiorati: «Particolari della guerra, non le grandi linee, né i fatti storici». Ed è questo il cuore del libro, un fascio di luce che illumina dettagli, umori, situazioni, quotidianità, assorbiti non solo dalla potenza dei fatti e dalla loro lettura, ma anche da quella del tempo che tutto sbiadisce. E’ un punto di vista preciso, quello di un mondo, la nobiltà, che nella guerra ha assistito al tramonto di se stessa. «Le nostre storie sono piccole storie nella grande storia», scrive la Diana nella premessa. E queste piccole storie seguono la traccia di avvenimenti che hanno cambiato il destino dell’Italia. Ci accompagnano, per esempio nella fuga dei reali da Roma a Brindisi. 

Bice Cafiero scrive dell’arrivo del re e della regina insieme al principe Umberto, al castello dei suoi nonni, i duchi di Bovino, (la nonna era la dama di compagnia della regina Elena), a Crecchio, tappa abruzzese del viaggio verso Brindisi. Lei e i suoi fratelli servivano a tavola. «Mamma osò rivolgersi a Badoglio: “Eccellenza posso chiederle cosa sta succedendo?” Egli rispose che stava portando le Loro Maestà in salo e che, in una ventina di giorni le avrebbe riportate a Roma». La mamma di Bice chiese anche quale sarebbe stata la sorte di Mussolini. «Forse i suoi lo libereranno», rispose Badoglio. Due informazioni che sembravano strane anche a una bambina. La nonna di Bice non poteva credere a quella fuga, «non gli andava giù» e volle a tutti i costi parlare a Umberto. Gli parlò francamente: «Altezza Reale, lasci che i suoi genitori partano, ma Ella torni a Roma, combatta, si ferisca anche minimamente, poniamo al dito mignolo, e la monarchia sarà salva». Quando la nonna uscì dalla stanza dove era avvenuto il colloquio era «tutta rossa in viso». «Sai cosa mi ha risposto?», disse rivolta alla figlia. «Mon Père ne Veut pas». Mio padre non vuole. 

In questo viaggio della memoria Immacolata Dentice di Frasso ricorda quando i Savoia arrivarono nel suo castello di San Vito dei Normanni, a pochi chilometri da Brindisi. «Un giorno squillò il telefono, che a quel tempo era a manovella…Rispose mia madre e la vidi cadere in ginocchio esclamando “Maestà”!». Era la regina Elena. Da quel giorno il «governo del sud» fece base al Castello. «Per primo arrivò l’attendente del Re a chiedere vestiti, dato che le loro maestà erano partite senza valigie». Il principe Umberto chiacchierava a lungo con la madre di Immacolata: «Quando usciva dalla mia camera mia madre aveva un’espressione tristissima». Un principe che capiva quanto quella decisione di lasciare Roma avrebbe influenzato non solo il corso della dinastia Savoia ma anche la reputazione. Eppure non aveva saputo opporsi al padre e soprattutto alla sua educazione. Chiedeva permesso prima di sedersi a tavola con il Re e non avrebbe mai trasgredito a un suo ordine. La regina Elena, scrive la nobildonna «parlava sempre in francese» e amava andare a pesca. Il maresciallo Badoglio «si presentava a cena senza essere invitato ed era malvisto da tutti». Il conte Carlo Sforza, ministro degli Affari Esteri, «notoriamente parlava male del re e di tutta casa Savoia», tanto che un giorno «mio padre, gelido, chiamò il custode del Castello ordinandogli di accompagnare il “signore” alla porta». Scene di vita quotidiana in uno dei momenti più drammatici della storia italiana dove si deve leggere la tragedia, spesso, filtrandola attraverso le maglie della buona educazione e della forma. 

Re in fuga ed eroi nei racconti delle nonne. Giovanna Della Chiesa Barberini ancora si commuove quando parla della cattura - «sotto ai miei occhi» - di don Giuseppe Morosini, «ex cappellano militare entrato nella Resistenza, sacerdote di immenso coraggio e generosità». «Abitava al collegio Leoniano di fronte a casa nostra», scrive Alberta. «La mattina del 4 gennaio 1944 sentimmo sotto casa nostra un gran frastuono di camion e motociclette e le inconfondibili e odiose voci dei soldati tedeschi. Sbirciammo attraverso le persiane chiuse». Fuori tedeschi armati fino ai denti che portavano via Morosini che poi venne fucilato il 3 aprile. 

Tanti i racconti delle sedici nonne. «Quello che successe nel periodo che ho appena finito di raccontare ha influenzato tutta la mia vita», scrive Bice Cafiero. Ed è come se parlasse per tutte. «Ora sono contenta di averlo ricordato in questo breve scritto perché, come dice Elisa Speinger nel suo libro “Il silenzio dei vizi”, dopo cinquant’anni di angosce interne, si ha il diritto di parlare, soprattutto perché la memoria storia serva alle generazioni future.  

(La Stampa)

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