cronaca

Quaranta anni fa il terremoto in Friuli

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Faceva caldo, molto caldo quella sera del 6 maggio 1976. Un caldo soffocante e quasi assurdo per la stagione. Poi, erano da poco passate le 21, la terra tremò e per il Friuli nulla fu più come prima. In pochi secondi un mondo, un modo di vivere, una cultura, un'intera comunità vennero spazzate via. Ma sul momento non si capì. Qualcuno pensava a un bombardamento, altri a scoppi di depositi di qualche polveriera della zona. Insomma non era chiaro.



D'improvviso le comunicazioni si interruppero, le linee erano sovraccariche, e a dialogare con i 'presenti sui posti' furono solo i radioamatori. ''Qui è tutto un polverone, si sentono grida in lontananza... non capiamo, forse c'è stato un terremoto''. Queste furono le primissime dichiarazioni degli autotrasportatori che passavano nelle zone di Venzone, Gemona, Osoppo. E la notte non aiutava.

Si era risvegliato l'Orcolat (l'orco, come da queste parti viene soprannominato il terremoto) e in pochi secondi si era trascinato tutto con sé.



In assenza di comunicazioni ufficiali ci si doveva basare sui telegiornali della sera. Tutti davanti ai televisori: ''c'è stato un terremoto in Friuli. Forse ci sono alcuni morti...". Solo alle prime luci del mattino dopo fu chiaro il quadro. Ovunque distruzione, ovunque case crollate, ovunque morte. Il terremoto aveva squassato il Friuli. E subito partì la solidarietà.

In quei giorni protagonisti furono in primo luogo i giovani friulani che a centinaia partirono per i luoghi colpiti dal sisma nel tentativo di salvare qualche vita umana. Si formarono delle squadre coordinate sul posto dai sindaci, dai Vigili del fuoco e dagli alpini della Julia che intanto si erano subito mobilitati per organizzare delle tendopoli per la notte e per quelle successive. Nei paesi più colpiti dalle scosse furono salvate vite umane, grazie al lavoro - a mani nude - di tantissimi 'angeli'.




Subito cominciò l'opera di smassamento di quello che restava delle case, dei fienili, delle stalle. Solo nel pomeriggio del 7 lo Stato arrivò con Giuseppe Zamberletti subito nominato commissario straordinario dal presidente del Consiglio Aldo Moro. E' storia nota. Sul campo rimasero quasi mille morti e un terzo della regione Friuli Venezia Giulia devastato. Alla classe politica si parava innanzi un compito immane: salvare quante più vite possibile nell'immediato, pensare all'emergenza e poi alla ricostruzione. Ma non era finita. Se la scossa del 6 maggio fu quella che mise in ginocchio il Friuli, il colpo di grazia doveva arrivare con le scosse di settembre che completarono la distruzione e obbligarono Stato e Regione a pensare di trasportare bambini, giovani e anziani lontano dall'epicentro. Subito si pensò alle località marine di Grado, Lignano, Bibione e Caorle dove ricostruire le comunità, mentre per gli 'attivi' si pensò di requisire migliaia di roulotte in giro per l'Italia, di concentrale nei paesi maggiormente colpiti per garantire almeno un minimo il lavoro nelle fabbriche che non erano state colpite dalla distruzione. Il motto di allora, che diventò un vero e proprio proclama politico-istituzionale, fu 'prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese': fu una scelta comune fatta propria anche dalla curia udinese. Si comprese che bisognava garantire il lavoro ai residenti, mettere in salvo i nuclei familiari e poi pensare alla ricostruzione che si voleva ''dov'era e com'era''.




Fu un'azione unitaria straordinaria. Maggioranza e opposizione deposero le armi e insieme collaborarono. Lo Stato delegò la Regione - con il coordinamento del Commissario straordinario - mentre questa, forte anche della sua autonomia, delegò ai comuni. I sindaci, per la prima volta nella storia d'Italia divennero protagonisti del futuro delle loro comunità. Non solo 'sindacalisti' o semplici supervisori, no. Decisori di come prestare i primi soccorsi, di come ricostruire e di dove ricostruire. Era, in nuce, la moderna Protezione civile. Tutto fu possibile grazie alla solidarietà nazionale e anche a quella internazionale essendo i friulani 'lontani dalla Piccola Patria' ben più numerosi dei residenti. Aiuti arrivarono subito dagli Stati Uniti, dall'Argentina, dall'Australia e da tantissimi Paesi europei. A quarant'anni da quei tragici giorni, a ricostruzione completata, si stima che il tutto sia costato circa 13 miliardi di euro. Una cifra non particolarmente alta se si pensa ad altre esperienze. Oggi tutto è a posto: i paesi sono stati tutti ricostruiti più belli di prima. Oggi l'Orcolat sicuramente non farebbe quella strage visti i sistemi antisismici di ricostruzione. Ma i paesi sono un po' vuoti... e le comunità non sono quelle di una volta... ammonisce la diocesi. Oggi tutto è cambiato e il Friuli non può essere estraneo alla globalizzazione. Rimane un'esperienza tragica, indelebile, che ha unito un popolo. E se oggi, pur nelle difficoltà della crisi, si può parlare di popolo friulano, lo si deve a quella straordinaria opera che è stata la ricostruzione del Friuli dopo il sisma di quaranta anni fa. (Pier Paolo Gratton - Ansa)

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