cronaca

Le lobby che guadagnano sui cani randagi, ecco come funziona

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Qualcuno sa spiegarci perché il randagismo seguiti a essere una piaga della società contemporanea? Come una malattia invasiva si rigenera da sé, eppure la soluzione è talmente ovvia: contenere decisamente le nascite. Invece, la maggior parte dei paesi sterilizza senza convinzione, e si affronta piuttosto il problema uccidendo i milioni di animali in esubero. Camere a gas dal Giappone agli Usa (anche il principale canile municipale di New York è contestato per le iniezioni letali a 72 ore dall'ingresso, in aggiunta al sospetto che parecchi esemplari spariscano), e ancora soppressioni in quasi tutta l'Europa, dalla Spagna alla Svizzera; stragi sommarie per mondare le strade di Romania e Ucraina. La durezza tuttavia non paga: di animali vaganti che seguitano a moltiplicarsi è ancora pieno il mondo.

Una politica diversa la intraprende ventiquattro anni fa l'Italia con una legge quadro civile e rara, la 281/91 , che vieta di sopprimere i randagi e pure di destinarli alla vivisezione. La missione possibile è debellare il randagismo attraverso sterilizzazioni a cura delle Asl, nonché educazione dei proprietari alla medesima pratica. Ma la norma è subito disattesa al punto di favorire incontrollabili movimentazioni di animali, battaglie feroci per ottenere la loro amministrazione diretta, un sistema lucrativo e corrotto dove, oggi più che mai, l'ultimo aspetto considerato è il benessere dei quattrozampe.

Anche da noi, dunque, per ogni cane o gatto senzatetto che trovi casa ne nascono altri cento, mille. Uno studio dell'americana Doris Day Animal League stabilisce che un cane femmina vagante e non sterilizzato sia soggetto a una media di due parti l'anno, otto cuccioli ogni volta di cui almeno quattro femmine, se non di più, che in cinque anni portano a 4.372 cani, pronti, in sette, a diventare 67mila. Ma nel frattempo, anziché agire di conseguenza, Comuni e Asl (responsabili e garanti legali dei randagi)  rivaleggiano per sbarazzarsene, pronti a imboccare qualsiasi scorciatoia si prospetti. Non vanno incontro a epurazioni ufficiali di massa, i nostri animali, ma a crudeltà, traffici, movimentazioni e lauti interessi che rischiano di far rimpiangere non sia così.

La lotta ad accaparrarsi la gestione di canili e rifugi in convenzione, finanziati con fondi pubblici, è senza quartiere, e c'è chi oggi denuncia vizi nelle gare d'appalto. I soldi sono parecchi, stanziati perlopiù dalle amministrazioni locali: fino a pochi anni fa comunità montane, unioni dei comuni e associazioni protezionistiche ricevevano cifre importanti anche dal ministero della Salute (nel triennio 91-93 stanziava cinque miliardi di lire, trasformati in cinque milioni di euro fra il 2005 e il 2010) nel 2014 ridotte al simbolico importo globale di trecentomila euro.

Ridotta ai semplici materiali - bisturi, filo e anestetico - la sterilizzazione di un animale può costare 20-25 euro e garantisce che esso non si riproduca mai più. Perché, allora, non investire decisamente i denari in tale direzione? Impossibile che cani e gatti si estinguano del tutto arrecandoci un dispiacere, e si potrebbe così eliminare la loro condanna a una vita grama e, in parecchi casi, a morte ancor più atroce.

I rapporti zoomafie della Lav-Lega antivivisezione sostengono che il randagismo frutti un giro di 500 milioni di euro l'anno. Di sicuro non c'è Comune italiano che non attinga alle proprie casse per la gestione, di solito indiretta, dei propri animali vaganti. "I Comuni rimangono responsabili degli animali, anche quando trasferiti in un'altra regione. Sono pertanto obbligati a provvedere a regolari controlli, sia per verificare le condizioni di mantenimento  e il rispetto delle condizioni previste dal capitolato d'appalto, che per sincerarsi dell'effettiva esistenza in vita degli animali all'interno delle strutture onde evitare di continuare a pagare con soldi pubblici le rette di mantenimento", ha chiarito Beatrice Lorenzin, ministro della Salute, in una recente intervista a Repubblica, mentre Piera Rosati, presidente della Lndc-Lega nazionale per la difesa del cane, considera: "I canili debbono essere costruiti dai Comuni, alle associazioni il ruolo di valore aggiunto a garanzia degli animali. Noi, d'abitudine, gestiamo strutture in convenzione con i comuni, ma tante nostre sezioni hanno rifugi di proprietà, mandate avanti con donazioni e sforzi autonomi".

Per chi non si ponga scrupoli, il bene in gioco che frutta a più livelli è appunto il randagio, quello che in teoria nessuno vuole: conteso, sequestrato, scambiato, sballottato da una regione all'altra e oltrefrontiera, a opera di innumerevoli parti in causa. Tutti si dichiarano votati alla sua salvezza, ma è arduo districarsi fra sincerità, ingenuità, competenze, malafede. Un marasma, e le istituzioni alimentano le tentazioni peggiori. Non sono pochi i comuni che, invece di premiare l'adottante con visite veterinarie gratuite o forniture di mangimi, stanziano una tantum (400-500 euro) devolute talvolta nemmeno al cittadino che accoglie l'animale, ma all'associazione mediatrice.

Grazie a volontari eccezionali e a chi opera correttamente nel settore, senz'altro nel nostro Paese migliaia di animali che senza colpa seguitano a nascere trovano affettuose soluzioni, ma di tantissimi altri, troppi, si perdono per sempre le tracce. Partono dai rifugi, vengono accalappiati per la strada, rubati nelle abitazioni, scambiati sul web, trasferiti in massa verso adozioni fuori regione o all'estero, simili a buchi neri. D'altronde, come verificare la sorte di tutti? Intanto a gestire i canili - miglior bacino di raccolta di questa merce vivente  -  sono, in conflittuale alternanza, associazioni, sedicenti tali e privati: gli uni accusano gli altri, troppo spesso dimentichi della ragion prima di cui vogliono essere arbitri: la tutela degli animali. La Repubblica

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