cronaca

Agenzie di collocamento: tra posti di lavoro fantasma e colloqui-beffa

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Sono 553 gli uffici sparsi in Italia, impegnano 10mila dipendenti pubblici e soltanto il 3% di chi ne fa richiesta trova una possibilità.

Sono circa 2 milioni le persone che ogni anno si rivolgono ad un centro per l'impiego italiano chiedendo un lavoro che non c'è o che potrebbero trovare tranquillamente da casa davanti ad un pc. Senza contare altre 600mila che vi si recano per supporti in servizi amministrativi. Il quadro generale è omogeneo e drammatico, non si salva alcuna provincia: da Milano a Bari, migliaia di cittadini vengono accolti in scenari apocalittici da personale con poca o nessuna formazione: ne entrano poco convinti e ne escono con ancora meno speranza. La clientela è variegata: giovani neolaureati (quindi inoccupati), meno giovani (quindi disoccupati), ventenni e trentenni, uomini e donne con i più disparati titoli di studio. Tutti alla ricerca di tutto: prime esperienze, stage, tirocini, impieghi brevi, manuali, contabili, amministrativi.

A Napoli, ad esempio, c'è la plastica rappresentazione di una giornata tipo ai centri di collocamento oltre ad un vasto assortimento di richiedenti lavoro. Qui alle 7 di mattina vengono manovali con le maglie sporche di pittura. Non sono disoccupati veri, lavorano in nero. Hanno fretta, chiedono qualche carta, il certificato di iscrizione da dare al «mastro» per eventuali sgravi contributivi, poi vanno subito via, al cantiere. Il disoccupato autentico arriva verso le 11. Si riconosce perché ha i movimenti lenti, si trattiene, cerca offerte sulle bacheche, resta almeno un'ora. Il procedimento standard della «prima volta» al collocamento è pressapoco questo: entri in uffici che non raramente rasentano la fatiscenza, aspetti il tuo turno, ti siedi e chiedi di iscriverti alla lista di collocamento. Dall'altra parte della scrivania lo sguardo impassibile del dipendente, che precede la frase forse più pronunciata tra quelle mura: «Non ci sperare. Non succede da anni che qualcuno trovi un impiego, anche a tempo determinato».

Sul web si leggono testimonianze da centri di Milano in cui il richiedente lavoro ha addirittura ricevuto una fotocopia di una cartella delle Pagine Gialle , con un suggerimento: «Prova con questi». Giulia, invece, neodottoressa di 23 anni, si è rivolta ad un centro di Bari, sentendosi rispondere un sibillino: «Non illuderti, non ti chiameremo mai». Anche Francesco, dopo l'Università, ha deciso di tentare la carta del collocamento a Roma, ma la storia è sempre la stessa. Questa volta l'impiegato fa qualcosa in più, forse non nel modo più appropriato: «Guarda, non so che dirti. Magari quest'azienda è interessata, telefona».

Insomma, i centri per l'impiego, eredi dei vecchi uffici di collocamento riformati nel 1997, non rappresentano esattamente un ottimo detrattore al 43% di disoccupazione giovanile. Qui l'incontro tra domanda e offerta di lavoro non esiste, c'è solo domanda, tanta domanda. E soprattutto, nonostante l'imbarazzante inefficienza, questi servizi della pubblica amministrazione sono pagati dai contribuenti. Ideati per promuovere le politiche attive, oggi sono invece il nettare vitale della burocrazia, quel buco nero in cui tutto in questo Paese si blocca. E chissà se gli «uffici di collocamento» hanno veramente mai rappresentato un'alternativa allo sbocco professionale, o sono invece sempre stati una delle tante leggende di questa Italia. Il Giornale

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