cronaca

«I nuovi ordinovisti? Cantavamo insieme le canzoni delle SS»

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Lo troviamo intento a disegnare un lupo, «l’animale per eccellenza simbolo di ferocia e violenza, non è così?», ironizza Rutilio Sermonti, 93 anni e la mano ancora ferma, col pennino che tratteggia alla perfezione l’animale digrignante sotto lo sguardo fiero della sua seconda moglie, Krisse, Clarissa, nata in Finlandia e «sposata davanti al sole, con rito solo nostro, in cima al Monte Pellecchia, in Abruzzo, a 2 mila metri d’altezza, molto vicino al nido delle aquile...». 
La notte del 22 dicembre a casa sua sono arrivati i carabinieri: «Erano le tre, dormivamo - ricorda Sermonti -. Si sono messi a fare luce con le torce contro le nostre finestre. “Aprite!” ci dicevano. E noi due, spaventatissimi: “Neanche per sogno, ora chiamiamo la polizia”. Alla fine ci hanno convinti, sono entrati e si sono messi a perquisire la casa, portando via il computer. Bene, io dico, perché nel mio computer c’è tutta la verità. E quello che penso è scritto nei miei libri». 
Secondo la Procura dell’Aquila, invece, sarebbe proprio lui - l’ex repubblichino, tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano e poi di Ordine Nuovo - l’ideologo di «Aquila Nera», il grande vecchio che avrebbe ispirato con le sue teorie rivoluzionarie il progetto terroristico della banda di «Avanguardia ordinovista», il gruppo di neo-fascisti che avrebbe voluto sovvertire la Repubblica a colpi di attentati, rapine e omicidi. Ma lui non ci sta: «Avanguardia ordinovista? Mai sentita nominare. La verità è che io sono l’ideologo di tanti che non conosco, che leggono i miei libri e poi chissà cosa gli viene in mente. E chi sarebbero i miei adepti? L’ex carabiniere Stefano Manni e sua moglie Marina? Sì, ora ricordo, son venuti più volte qui a casa mia...».

La signora Clarissa rammenta che venivano «quasi in adorazione», il signor Manni, la moglie e altri che i coniugi Sermonti chiamavano «il gruppo di Pescara». «Vennero da noi tre o quattro volte, erano simpatici, amichevoli, poi mettevano su Facebook le mie foto e i miei testi». 
E passavano le ore a farsi raccontare da Rutilio i tempi della guerra o di quando giurò davanti al Duce allo Stadio dei Marmi il 28 ottobre 1938. E qualche volta cantavano anche, tutti insieme, le canzoni fasciste («Diventiamo tutti eroi con la morte a tu per tu») oppure delle SS («Waffen Waffen Waffen»), ma senza mai accennare a propositi bellicosi, come quello di uccidere i politici e gli extracomunitari e addirittura replicare la strage dell’Italicus e «carbonizzare» il capo dello Stato. 
«Chi è Stefano Manni? Solo un millantatore - s’indigna Rutilio Sermonti sulla sua sedia a rotelle -. Un chiacchierone che riempiva i discorsi di fregnacce e bla-bla-bla. Uno a cui piaceva sentirsi qualcuno. Ma per essere qualcuno bisogna fare qualcosa e lui non ha mai fatto niente. Manni il deus ex machina dell’organizzazione? Ma scherziamo, al massimo della macchina del caffè...». 
Il vecchio pittore e scrittore, autore con Pino Rauti di «Una storia del fascismo», confessa di sentirsi preso in giro: «Manni l’ultima volta mi promise mille euro per dare alle stampe il mio ultimo libro “Non omnis moriar”, ma il suo bonifico ancora l’aspetto e due mesi fa gli scrissi al computer un elenco di insulti che i carabinieri potranno riscontrare. Da quel giorno chiusi con lui».

Rutilio Sermonti è fratello di Giuseppe lo scienziato e Vittorio l’illustre dantista: «Giuseppe mi ha telefonato appena saputa la notizia dal telegiornale, con Vittorio non ci vediamo da sette anni e mi piacerebbe tanto riabbracciarci, come quando un tempo ci vedevamo a Roma al ristorante di mio nipote Andrea, il figlio di Giuseppe, a Trastevere». 
Oggi fanno impressione i suoi racconti dal fronte jugoslavo, dopo l’8 settembre, lui arruolato nella Schutzpolizei («Gli ufficiali tedeschi amavano ripetere: con Sermonti non si muore...»). 
Senza l’ombra di un pentimento, neppure un dubbio sul fatto di essersi schierato coi nazisti. Anzi mostra con orgoglio la croce di ferro della Wehrmacht appesa al muro, vicino a un manifesto di Julius Evola e a una foto in bianco e nero di Pio Filippani-Ronconi («Mio grande amico») con l’uniforme delle Waffen-SS. «È vero, sono un ideologo - conclude Sermonti -. Ma non della violenza! Uccisi della gente, in guerra, con la mitragliatrice: ma appunto solo in guerra uccidere è legittimo, per me! La violenza popolare io l’ho prevista, mai incoraggiata».

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