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Usa-Cuba: la tela di Papa Francesco

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

La premessa risale all’inizio del 1959, quando Fidel Castro aveva preso il potere, Giovanni XXIII era Papa da un paio di mesi e c’erano missionari e suore in fuga da Cuba. Loris Capovilla, allora segretario del pontefice e oggi cardinale, raccontò al Corriere della Sera che Roncalli era furibondo: «Perché non si scappa, non si scappa mai. E mai si interrompono i rapporti diplomatici».


Quando il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin
e il suo omologo americano John Kerry si sono incontrati, lunedì mattina, era già tutto deciso, non restava che confermarlo a chi lo aveva reso possibile. A ottobre, mentre il mondo intero guardava all’Aula del Sinodo, in Vaticano si incontravano in segreto le delegazioni degli Stati Uniti e di Cuba per quella che Bergoglio per primo, «con vivo compiacimento», definisce «una decisione storica». È una finezza della storia che tutto questo sia accaduto nel giorno del (settantottesimo) compleanno di Francesco. Però non è un caso che proprio il Papa arrivato «quasi dalla fine del mondo», il primo pontefice latinoamericano, abbia portato a compimento un processo che si è risolto negli ultimi mesi ma la Chiesa ha sviluppato per anni, con la pazienza di chi è abituato a misurarsi nei millenni. Bergoglio si è speso in prima persona: le lettere scritte in estate a Raúl Castro e a Obama ma anche le telefonate per favorire la liberazione «di alcuni detenuti», a cominciare dall’americano Allan Gross, in carcere a Cuba da 5 anni.


È qualcosa di concreto
, e insieme simbolico, che il Vaticano abbia «accolto» statunitensi e cubani e le due parti considerassero il suo territorio come fosse un’area «terza», più che neutra. Un evento reso possibile da un Papa che viene dal Sud del mondo, non si stanca di denunciare le derive dell’Occidente e di un mercato che idolatra «il dio denaro», e vuole una «Chiesa povera e per i poveri» in uscita verso le «periferie». E poi c’è da considerare la «squadra» di Francesco. L’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu, sostituto e quindi «numero due» della Segreteria di Stato, era nunzio a Cuba e preparò la visita nel 2012 di Benedetto XVI. Il cardinale Parolin era nunzio in Venezuela. I vertici della diplomazia vaticana conoscono perfettamente l’area e i suoi protagonisti. Del resto la vocazione della diplomazia vaticana, da sempre considerata la migliore del mondo («chissà la seconda», scherzava con malcelato orgoglio il cardinale Domenico Tardini, ai vertici con Pio XII e Giovanni XXIII) è in ogni circostanza di favorire la caduta dei muri: «Pontefice», alla lettera, è proprio colui che costruisce ponti.


La Santa Sede
ha sempre avuto un rapporto solido con gli Usa - il fatto poi che Kerry sia cattolico aiuta - e negli ultimi anni ha rafforzato i rapporti mai interrotti con Cuba. I vescovi cubani e quelli statunitensi chiedevano la fine dell’embargo, nel ‘98 arrivò nell’isola Giovanni Paolo II a dire che era «ingiusto ed eticamente inaccettabile». Dopo aver incontrato Fidel Castro, già allievo dei gesuiti, Benedetto XVI salutò Cuba nel 2012 chiedendo la stessa cosa, «si eliminino posizioni inamovibili e punti di vista unilaterali». Già allora la Santa Sede aveva perorato la causa della liberazione di Allan Gloss. Kerry è tornato a chiedere l’intervento vaticano a gennaio, incontrando Parolin. L’indole diretta di Francesco, tra lettere e telefonate, è stata la svolta finale. (Corriere)

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