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Tra Santa Sede e Cina è l'ora della diplomazia della cultura

Agostino Giovagnoli Avvenire (da Ansa)
Pubblicato il 01-06-2019

Il Palazzo imperiale di Pechino espone da qualche giorno importanti oggetti d’arte cinesi dei Musei Vaticani. «È la prima volta che sono stati riportati nel loro Paese d’origine manufatti cinesi provenienti dalla collezione dei Musei Vaticani, nella quale sono presenti doni che testimoniano secoli di comunicazioni tra la Cina e il Vaticano e manufatti che intrecciano arte cattolica e arte cinese». Lo scrive il 'Global Times', quotidiano ufficioso di Pechino. Si tratta dell’ultima di una serie di 'prime volte': il padiglione della Santa Sede all’Expo dell’Orticoltura a Pechino inaugurato il 29 aprile alla presenza del cardinal Gianfranco Ravasi; l’intervista del Segretario di Stato vaticano ancora al 'Global Times' il 12 maggio; la partecipazione di due vescovi cinesi insieme al cardinal Pietro Parolin a un convegno dell’Università Cattolica a Milano il 14 maggio… Sono eventi con uno spiccato carattere culturale. Ed è probabile che altri seguiranno nei prossimi mesi.

 

Lecito chiedersi se si tratti di una sorta di 'diplomazia della cultura' che si affianca al dialogo politico diplomatico tra Santa Sede e Cina, sul modello della 'diplomazia del pingpong' che cinquant’anni fa preparò nuovi rapporti tra Stati Uniti e Repubblica popolare cinese. In realtà, questi eventi rispondono a una logica più profonda. Che è culturale nel senso ampio del termine, pur implicando anche eventi culturali in senso specifico e pur avendo anche effetti politici. Di questa mostra aveva parlato già un anno fa papa Francesco, collegando tra loro diversi livelli di dialogo tra Santa Sede e Cina: quello 'ufficiale' delle delegazioni che si incontrano; quello che si sviluppa attraverso contatti personali; e «il terzo, che per me è il più importante nel […] riavvicinamento con la Cina», appunto quello «culturale». Nel duplice senso del dialogo interculturale e degli eventi culturali. «È la strada tradizionale, quella dei grandi, come Matteo Ricci», in cui si inseriva – affermò il Papa – anche la mostra di oggetti d’arte conservati nei Musei Vaticani.

 

Questa strada è la più importante perché, nella visione di Francesco, un legame profondo unisce ciascun popolo alla sua cultura. Lo ha detto più volte, proprio a proposito della Cina. E, per lui, se si sviluppa un dialogo tra le diverse culture sono i popoli interi a dialogare. Il che vuol dire aprirsi all’altro, accorciare le distanze, costruire la pace. È il dialogo interculturale, che ha avuto un ruolo anche nei recenti sviluppi dei rapporti sino-vaticani. Apparentemente, il livello cruciale è stato quello politico-diplomatico e, indubbiamente, l’Accordo provvisorio del 22 settembre 2018 ha segnato una svolta. Ma la strada verso l’Accordo si è sbloccata solo grazie al superamento di incomprensioni, equivoci, fraintendimenti che hanno una radice culturale. Le due parti si sono scontrate a lungo anche perché non si capivano l’un l’altra, mentre la situazione è cambiata quando ciascuna delle due ha rinunciato a imporre i propri princìpi, criteri e regole. Lo ha spiegato il cardinal Parolin a Milano in occasione del convegno '1919-2019. Speranze di pace tra Oriente e Occidente'. Anche questo Accordo, insomma, si colloca all’interno di un dialogo interculturale. Tale dialogo presuppone una forte volontà di incontro. Di per sé, infatti, le culture non si parlano, sono realtà inerti che non entrano in relazione l’una con l’altra.
Possono dialogare solo uomini e donne in carne ed ossa, che decidono di farlo, superando inerzie radicate, forti resistenze e grandi ostacoli. In francese li chiamano passeurs, traghettatori, coloro che si avventurano nella cultura degli altri. L’esempio di Matteo Ricci è illuminante. Il gesuita italiano è giunto in Cina con una nutrita biblioteca di testi occidentali classici, medievali e rinascimentali. Ma ha poi iniziato un percorso di evangelizzazione che lo ha portato da Macao a Pechino e che è stato anche di dialogo interculturale. Dapprima ha individuato nei monaci buddisti i più vicini all’annuncio religioso di cui era portatore e ha indossato i loro abiti. Successivamente, prima a Nanchino e poi a Pechino, ha stretto amicizia con i mandarini-letterati e ha individuato nella cultura confuciana del tempo il miglior veicolo per parlare loro del «Signore del Cielo». Perché ci sia dialogo interculturale, insomma, ci vuole un incontro umano e quello che si realizza all’interno di un’amicizia è certamente tra i più ricchi e profondi. Non è la cultura che conduce all’incontro, insomma, ma è la «cultura dell’incontro» – per usare un’espressione cara a papa Francesco – a spingere verso il dialogo senza cui non sono possibili comprensione, intesa, accordo.

 

È un percorso tutt’altro che astrattamente accademico. Che però può essere aiutato dalla cultura in senso stretto: studi storici e ricerche linguistiche, seminari e convegni, traduzioni e pubblicazioni, come pure mostre d’arte ed esposizioni archeologiche, musica e teatro ecc. Uomini e donne di cultura infatti – e, potenzialmente, tutti lo siamo – fanno parte di una comunità che non può essere limitata da barriere e confini. La disciplina del confronto culturale aiuta a imparare la lingua dell’altro e a ricomprendere sé stessi attraverso i suoi occhi, insomma a decentrarsi da sé e a gustare il sapore dell’alterità. Gli eventi culturali predispongono al dialogo interculturale. Nel rapporto sino-vaticano questo dialogo ha indotto gli uni ad accogliere un approccio pragmatico e fattuale e gli altri ad accettare una modalità astratta e generalista o, per dirla, con Francois Jullien, la «cultura del vivere», propria degli orientali, e quella «dell’essere», propria degli occidentali. Tra l’assolutezza del principio occidentale di sovranità territoriale e la tradizione cinese del controllo politico sulla società, i negoziatori hanno trovato uno spazio di convergenza che costituisce anche una novità culturale. E così via. Pure i nodi ancora insoluti nei rapporti tra Santa Sede e Cina possono essere sciolti solo affrontandone anche lo spessore culturale.

 

Tutto ciò è anche politica. Ha ragione papa Francesco: se uno stretto legame unisce ciascun popolo alla sua cultura, dove c’è dialogo interculturale ci sono anche rapporti tra popoli. Mentre, dove non c’è dialogo, prevale il confitto. Nel mondo di oggi le identità culturali vengono evocate sempre più spesso per costruire muri. Contemporaneamente, però, in tante parti del mondo il dialogo interculturale costruisce ponti. Oggi, in Cina, il disegno di una progressiva sinizzazione delle religioni si sta esprimendo anche sotto forma di crescente insistenza sulla tradizione confuciana, come si è visto nel recente incontro dei responsabili delle diverse comunità religiose cinesi convocati a Qufu, dove è nato Confucio. Bisogna avere paura di Confucio? Da questa paura è nata la lunga querelle dei riti, chiusa definitivamente da Pio XII nel 1939 dopo tre lunghi secoli di dolorose controversie. Matteo Ricci, invece, non ha avuta paura di Confucio e ha trasformato la tradizione confuciana in un ponte tra Oriente e Occidente sul quale ha camminato anche l’annuncio del Vangelo. Per papa Francesco, Matteo Ricci è anche oggi un modello da seguire: la strada più importante, dice infatti, è quella della cultura, «la strada tradizionale, quella dei grandi». AVVENIRE


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