attualita

Professione voti Novizi, padre Gambetti: abbiamo ricevuto un talento, del quale siamo responsabili

Redazione online Fra Martin Breski
Pubblicato il 30-11--0001

Proponiamo ai nostri lettori la riflessione del Custode del Sacro Convento di Assisi, padre Mauro Gambetti, per la celebrazione eucaristica della prima professione dei voti dei novizi che si è tenuta nella Basilica Inferiore di San Francesco.

-----------------------------


“Abbiamo promesso grandi cose, maggiori sono promesse a noi; osserviamo quelle e aspiriamo a queste. Il piacere è breve e la pena eterna; piccola la sofferenza, infinita la gloria. Molti i chiamati, pochi gli eletti, ma tutti avranno la retribuzione!” San Francesco immagina questa semplice predicazione per un’assemblea capitolare dei frati, ma potrebbe essere il commento alla liturgia che stiamo vivendo. Il Vangelo.

La parabola di oggi è incastonata tra la parabola delle dieci vergini, che invita a stare vigilanti, e la parabola del giudizio finale, che rivela su cosa saremo giudicati nel nostro fare, cioè sull’amore. L’uomo che parte per un viaggio rappresenta Gesù stesso, che con la sua morte- risurrezione-ascensione lascia i suoi discepoli affidando loro i misteri del Regno. I talenti si riferiscono pertanto alla fede in Gesù e a quel rapporto vitale con lui che ci rende partecipi dei segreti di Dio, come dirà Gesù nell’ultima cena ai suoi discepoli: “Non vi chiamo più servi … vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15).

 Abbiamo promesso grandi cose e la domanda può essere: cosa è in gioco nella nostra operosità? Servi per che cosa? Abbiamo ricevuto un talento, del quale siamo responsabili. Insieme al dono della fede, che ci consente di partecipare ai misteri del regno, abbiamo ricevuto in specie il dono della vocazione (di cristiani, sposi, frati, ecc.), che è la forma storica, concreta dei misteri del regno che attraverso di noi lo Spirito può offrire al mondo. Infatti, ogni vocazione è a causa, in funzione, per… il regno dei cieli. In tal senso, allora, la vocazione si configura come la modalità con cui trafficare i talenti. Al dono della vocazione si accompagnano dei compiti e degli impegni ecclesiali. A ciascuno ne sarà chiesto conto. Abbiamo promesso grandi cose.

Noi religiosi in particolare che cosa abbiamo promesso? Di vivere il vangelo come tutti i cristiani, ma in specie seguendo Cristo povero e crocifisso, come frati minori nel mondo. L’umiltà per noi non è semplicemente una virtù, ma è la condizione della nostra vocazione. Gli umili riconoscono di avere avuto un dono. Proprio per questo non se ne vantano, non se ne appropriano, non lo trattengono, ma lo spendono tutto. La vita va spesa, va gettata nella mischia. Il servo pigro e malvagio nasconde il talento, vuole per sé solo la soddisfazione, la gioia che invece è trovata donando il talento. Nella legislazione giudaica rabbinica chi, dopo la consegna, sotterrava un pegno o un deposito era esente da responsabilità. Al terzo servo, il talento è rimasto estraneo, non appartenente, da restituire intatto. Egli non vuol seguire la dinamica della fede e così facendo sottrae agli uomini la possibilità di cogliere lo splendore dell’amore di Dio, almeno per la parte di cui è responsabile. Non è più ‘buono a nulla’ ed è malvagio perché impedisce a Dio di essere conosciuto dai suoi figli!

Quali sono i religiosi buoni a nulla? Richiamo solo due tipologie: quelli protesi a far risplendere la propria gloria; quelli che cercano le soddisfazioni. In genere, questi religiosi pensano di avere molti talenti e che questi vadano trafficati come sanno fare loro e, tra sé e sé, sono pervasi da questi pensieri: i miei spazi, il mio tempo (faccio il servizio, poi ho diritto a..), i miei amici (e sono solo miei), le mie cose, le mie idee, le mie ragioni (ho ragione e su questo non torno indietro), il mio lavoro (guai a chi ci mette parola), le mie capacità (devo essere valorizzato)… Dietro c’è la paura, c’è la malvagità e la pigrizia del servo infedele e inutile del vangelo. A noi è chiesto di dare la vita non di trovare soddisfazioni! E l’unico a cui dobbiamo dare gloria è Dio!


Siamo chiamati a mostrare lo splendore della sua gloria, non la nostra, che è ben poca cosa. Come ci ricorda san Paolo nella prima lettura: quello che è stolto per il mondo Dio lo ha scelto… quello che è debole per il mondo Dio lo ha scelto… quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio. Se uno pensa di essere qualcosa, di avere talenti – 2, 5, 10 –, forse non è nella strada giusta. Noi religiosi siamo quelli che hanno ricevuto un solo talento ed è la vita - di grazia - che gratuitamente ci è stata data: questa va letteralmente gettata per gli altri. Maggiori sono promesse a noi: prendi parte alla gioia del tuo padrone. Questa è la prospettiva che ci è posta innanzi: avere parte alla gioia di Dio, il che corrisponde ad avere potere su molto. Il talento ricevuto vale molto (pesava 34 kg e secondo alcuni calcoli corrisponderebbe a circa cento anni di paga), ma è poca cosa rispetto a quello che ci attende, la gioia del padrone, il potere su molto.

Come vi si accede? Osserviamo quelle (le promesse fatte) e aspiriamo a queste (la gioia che ci è posta innanzi). Attenzione: trafficare i talenti, ha a che fare con la parabola sul giudizio finale, allorquando il Signore Gesù dirà a ciascuno: ‘avevo fame e mi hai dato da mangiare …’. La vita si gioca nel dare more e scoprirsi figli dello stesso Padre. Quale il religioso buono e fedele? Quello che lascia traboccare la sovrabbondanza di grazia che gli è concessa in un impegno generoso e responsabile. Chi ha troppe cose da fare e deve curarsi per lo stress che ne deriva sta seguendo un’altra logica, non evangelica. La vita, ciò che facciamo, ci fa essere ciò che siamo: questa è un’esperienza di libertà, di serenità, di gioia… nella fatica e nel travaglio dell’operare. Aver parte alla gioia di Dio, avere potere su molto, è proprio di chi “opera, perché è”.

Basta essere lì dove si è per essere nella pace, perché la vita “ci fa” (quel luogo, quei fratelli, pregare, lavorare, parlare/ascoltare, studiare… obbedienti alla Regola, obbedienti alla vita). Voler essere altrove, voler fare altro… è la negazione del dono, che così viene sotterrato, perché viviamo “come se”, come se la nostra vera realtà fosse un’altra. Non ci sentiamo veramente responsabili del dono. In tal caso, almeno venga affidato il talento ai banchieri! Significa, mettere il talento nella comunità ecclesiale; nel nostro caso, nell’Ordine, facendo le cose di base: preghiera liturgica, gli atti comuni, uno stile modesto… il Signore potrà riscuotere con gli interessi quel talento, perché i frutti verranno attraverso la comunità che testimonia la sua adesione al Signore.

La parabola ci mette in guardia ancora su un aspetto. Quando l’uomo teme di dare se stesso, come nel caso del servo cattivo, in gioco non è semplicemente la sua pigrizia verso gli altri uomini, ma l’autocensura rispetto alla vita, alla vocazione e l’incapacità del pentimento perché dice: è tutto sbagliato se Dio ha fatto così le cose, se Dio agisce in questo modo! Quante volte pensiamo così! Ad esempio quando pensiamo che vi sia una realtà migliore di quella che ci è data, che vi siano fratelli, amici, figli, sposi e spose, datori di lavoro, vescovi e superiori… migliori: di ché? Migliori per chi? Migliori per me.

E sotto sotto c’è questo inganno: Dio non sa fare bene le cose, non mi vuole sufficientemente bene perché io possa esprimere tutto il mio potenziale d’amore, di bene, perché io sarei un testimone di generosità, di dedizione, di obbedienza… se avessi a fianco un’altra persona, ad esempio un altro superiore – che preferibilmente sceglierei io –, se fossi in un’altra comunità, avessimo altri progetti, fossi in un altro luogo, se avessi altri compiti… Dio non è in grado di redimermi fino in fondo? Di mettermi in condizione di dare la vita?

L’uomo non è felice e non si realizza perché trova soddisfazione, ma perché dona se stesso e così trova gioia. A voi, fratelli, mentre diciamo la nostra gratitudine, che ha la sua piena espressione nell’Eucaristia che celebriamo, l’augurio di osservare le cose promesse e aspirare alla gioia del Padre: “il piacere è breve e la pena eterna; piccola la sofferenza, infinita la gloria. Molti i chiamati, pochi gli eletti, ma tutti avranno la retribuzione!”

Cari amici la rivista San Francesco e il sito sanfrancesco.org sono da sempre il megafono dei messaggi di Francesco, la voce della grande famiglia francescana di cui fate parte.

Solo grazie al vostro sostegno e alla vostra vicinanza riusciremo ad essere il vostro punto di riferimento. Un piccolo gesto che per noi vale tanto, basta anche 1 solo euro. DONA