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Le parole in opere nei luoghi di don Puglisi

Antonio Tarallo Rivista sanfrancesco
Pubblicato il 12-09-2018

“Credo a tutte le forme di studio di approfondimento e di protesta contro la mafia. La mafiosità si nutre di una cultura e la diffonde: la cultura dell’illegalità. La cultura sottesa alla mafia è svendita del valore della dignità umana. E i discorsi, la diffusione di una cultura diversa, sono di grande importanza. Ma dobbiamo stare molto attenti che non ci si fermi alle proteste, ai cortei, alle denunce. Se ci si ferma a questo sono soltanto parole. Le parole vanno convalidate dai fatti”.  


Così si esprimeva don Pino Puglisi, in merito all’impegno civile (e l’aggettivo per lui si fondeva con quello di “cristiano”) contro la mafia. Il suo martirio, perché di martirio si è trattato, è una solida testimonianza di un “ideale cristiano” (seppur sappiamo che il cristianesimo certamente non può definirsi proprio con la parola “ideale”, il cristianesimo è tanto altro) che si “incarnava” soprattutto in opere, in quei “fatti” a cui la citazione soprariportata fa riferimento. E, i fatti, si sa bene, passano per dei luoghi specifici. Passano per dei luoghi che rappresentano lo sviluppo proprio di quelle idee. Di queste, abbiamo parlato nella precedente puntata, delle “idee di don Puglisi”. Cerchiamo, allora, ora di focalizzare l’attenzione, ora, proprio sui fatti. Passando, appunto per i luoghi più significativi che hanno tracciato la mappa esistenziale del sacerdote di Brancaccio.

Iniziamo questo “tour”, mi sia passato il termine, con la sua casa, in Piazza Anita Garibaldi, luogo del barbaro assassinio. Dal 1969 al 1982 il sacerdote, visse qui, con entrambi i genitori, per ritornarci poi, nel 1986. L’anno successivo viene a mancare la madre, e don Pino rimarrà nella casa, assieme al padre. Nel 1992 muore il padre. Don Puglisi decide di rimanere in quella dimora. Ora, la casa è un museo, inaugurato il 25 maggio 2014, ad un anno dalla sua beatificazione. Uno spazio che parla della sua esperienza di vita, attraverso oggetti, pareti, fotografie, per non dimenticare il passato ed avvertirne la continuità con il presente ed il futuro. La fotografia della prima messa, in una cornice d’argento, ormai usurata dal tempo. La fotografia del matrimonio dei genitori. Una veletta copre il capo della mamma, che con aria seria, regge in mano un grande bouquet di fiori. Vicino a lei, il padre, elegantissimo, con un papilon nero. Sembrano dei principi. E poi l’armadio della sua camera da letto con le casule, con i diversi paramenti sacerdotali. Ma il cuore della casa è lo studio. Sobrio, anch’esso. E’ semplice, ma colmo di volumi. Tanti, tantissimi a testimonianza di quella sete di approfondimento di don Pino. All’interno della casa ne sono stati trovati circa 6.000, che sono stati poi trasferiti al seminario Diocesano. Una vita vissuta nella piena povertà “francescana”, ma mai priva di pagine di libri, di parole da meditare, o su cui magari trarre spunto per qualche omelia, per qualche scritto.

“A chi testimoniare la speranza? A chi ha rabbia nei confronti della società che vede; a chi è pieno di paure e di ansia; a chi è impaziente perché ciò che desidera tarda a realizzarsi; a chi è sfiduciato per le sue cadute. Si deve dare la speranza a chiunque chieda segni di amore”.  Parole forti, e profetiche, quelle del “ parrinu chi cavusi”, così era chiamato in siciliano, Don Puglisi, “il prete con i pantaloni” per la sua abitudine di non indossare l’abito talare per le strade di Brancaccio. Il quartiere, la realtà dei giovani, la speranza “a chiunque chieda segni di amore”, e don Puglisi. E’ questo un legame stretto, un “unicum” – potremmo dire – con il pensiero evangelico del sacerdote palermitano, e questo legame ha visto il proprio compimento con il sorgere del Centro Padre Nostro. Un luogo dove accogliere i giovani per toglierli dalla strada e strapparli alla criminalità. “3P”, altro appellativo di don Pino, comprende subito che in quel luogo, il Brancaccio, la sfida contro la mafia, parte dall’impegno educativo per le nuove generazioni.

Lì, dove i bambini, il giorno dopo la strage di Capaci, gridavano per le strade “Abbiamo vinto! Viva la mafia!”, il centro “Padre nostro”, rappresentava una “prima pietra della legalità”.  Il centro nasce nel 1991, e viene inaugurato nel 1993. Rimarrà storica la lettera che il sacerdote scrisse ai detenuti dell’Ucciardone : “In occasione del Natale, noi del Centro di accoglienza “Padre Nostro” (…) desideriamo farvi sapere che in questi momenti anche noi, oltre naturalmente i vostri cari, rivolgiamo il nostro pensiero a voi e alle vostre condizioni di spirito”. Con questa lettera, il centro apriva una vera e concreta via di dialogo con chi aveva “errato” nella sua vita, invitando i detenuti  – una volta usciti – a ritornare responsabili delle proprie esistenze. A riprendere in mano la propria vita. Don Puglisi, il “Centro Padre Nostro”, con questo importante documento, divenivano,  così, un’alternativa alla mafia, anche a chi vi aveva fatto parte. Duplice sfida, allora: sottrarre all’organizzazione malavitosa, sia i giovani, sia chi voleva trovare una nuova vita. Questi “piccoli” mattoni, rappresentavano nel concreto, quello che il sacerdote palermitano aveva enunciato in una delle sue più famose frasi: “Se ognuno di noi fa qualcosa allora si può fare molto”.

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