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Io, musulmano convertito al cristianesimo, respinto dalla famiglia e dalla società

Redazione online Ansa - ALESSANDRO DI MARCO
Pubblicato il 30-11--0001

“Non riesco a mantenere la mia famiglia, ho bisogno di un impiego. Dal momento che credo in Gesù Cristo, affronto sempre dei problemi sul luogo di lavoro. Per favore, pregate per me”. Sono le parole di Anil Gomes, nome inventato per motivi di sicurezza, che racconta ad AsiaNews la sua dolorosa vita da musulmano convertito al cristianesimo. Egli insegnava ad una università islamica in Bangladesh, ma quando i suoi ex colleghi lo hanno sorpreso a leggere la Bibbia è stato licenziato. Da quel momento ha subito aggressioni, violenze, minacce di morte. E ora, con la deriva islamica in cui è caduto il Paese, ha paura di essere ucciso in qualsiasi momento.


La vita di Anil Gomes è cambiata nel 1994, quando ha letto un brano del Vangelo di Giovanni: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (3:16). Egli si trovava in Arabia Saudita per frequentare studi avanzati di religione islamica, dopo aver conseguito in Bangladesh la laurea in Storia. A Riyadh, dove si era recato per assistere ad una condanna a morte, un uomo gli si è avvicinato e ha consegnato nelle sue mani un volantino scritto in arabo.

Su quel volantino egli ha letto il versetto del Vangelo ed è rimasto colpito nel profondo. “Non avevo mai visto niente di simile – afferma – in nessun libro islamico. A quel punto dovevo sapere tutto e ho scoperto che il brano fa parte di un testo sacro chiamato Injeel Sharif (Nuovo Testamento), scritto prima del Corano”.



Anil continua: “Una notte, verso le 3 del mattino, ho visto un uomo vestito di bianco entrare nella mia stanza e rivolgersi a me dicendo: ‘Cosa stai pensando? Prendi la via del Najat (Redenzione) e accogli Isa Mossiah (Gesù)’. Poi l’uomo è scomparso e io sono rimasto a tremare di paura”.

All’inizio lo studente musulmano ha creduto di non poter condividere quanto accaduto con nessuno, ma poi dopo qualche tempo ha raccontato la vicenda alla ragazza, di origine egiziana. “Lei mi ha detto di abbandonare l’islam, ma io non potevo raccogliere il suo invito. Poi è stata lei a lasciarmi per sempre”.




Mentre preparava gli esami del dottorato, Anil ha avuto la possibilità di visitare 16 Paesi musulmani per un viaggio formativo. Quando è giunto in Iraq, ha cercato una chiesa. “Sono andato dal pastore Paul (nome di fantasia) e ho parlato con lui. Egli mi ha battezzato il 15 maggio 1994”.

Conclusi gli studi, Anil è tornato nel Paese di origine, dove ha iniziato a insegnare in una università islamica come assistente del professore di Letteratura araba. Il cristiano riporta che il suo comportamento inusuale ha insospettito i colleghi: “Io non leggevo il Corano, perciò essi hanno iniziato ad avere dei dubbi su di me. Un giorno qualcuno mi ha visto mentre leggevo la Bibbia in arabo, perché stavo comparando il testo con la versione in bengalese”.




Allertato dai colleghi, il vicerettore lo ha convocato nel suo ufficio e gli ha domandato se si fosse convertito al cristianesimo. Anil ha risposto con la massima sincerità: “Sì, sono un seguace di Gesù”. A quel punto il vicerettore gli ha risposto che “un kaffir (empio) non può insegnare in nessuna università islamica”; l’amministrazione della scuola lo ha poi licenziato.



Pochi giorni dopo, continua Anil, “i membri del gruppo islamico studentesco Shibir mi hanno prelevato dall’area dell’università di Kustia [una delle più prestigiose università pubbliche] e portato a Khulna. Volevano uccidermi. Hanno reciso le vene delle mie gambe, ferito il mio corpo in vari punti, di fronte ai miei parenti e a fanatici musulmani del luogo. Il mio corpo riporta ancora le 40 cicatrici di quei colpi”. Il cristiano ha perso i sensi e si è risvegliato quattro giorni dopo al Bangabandhu Sheikh Mujib Medical University (PG Hospital) di Dhaka. Era stato portato lì da uno zio indù, al quale la madre aveva consegnato 85mila taka bangladeshi [circa 1.000 euro] per pagare il ricovero. In lacrime e senza riuscire a parlare, ricorda che lo zio gli ha promesso di rimanere con lui fino a quando non si fosse ristabilito.



Le cure ospedaliere sono durate 3 mesi e 21 giorni. Quando è tornato a casa, è stato picchiato di nuovo dai fedeli della moschea locale. In seguito è stato abbandonato dalla famiglia, che non gli ha riconosciuto nessuna eredità, e dalla società.



Dopo il primo licenziamento, ne sono seguiti molti altri sempre per lo stesso motivo: è stato scacciato da una Ong, una banca islamica, un istituto finanziario. Poi ha trovato lavoro in una organizzazione non governativa evangelica, che però è stata costretta a chiudere per mancanza di fondi. L’ultimo impiego è stato in un ufficio vendite di Dhaka, dove però il capo lo ha avvertito: “Rinuncia al cristianesimo. Se dirai le preghiere e leggerai il Corano tutto il giorno, percepirai lo stipendio”. Anil ha rifiutato e il capo lo ha minacciato di morte, oltre a non confermare il suo posto di lavoro.

Oggi Anil fatica a mandare avanti la famiglia, è sposato con una donna cattolica e il figlio frequenta l’ottava classe in una scuola cattolica. A volte testimonia la sua storia in seminari e incontri, ma questo lavoro non è a tempo pieno. Le numerose uccisioni di non musulmani, blogger e altre persone convertite al cristianesimo, attuate di recente da parte dei radicali islamici, hanno accresciuto ancora di più le sue paure. “Sono molto preoccupato – conclude – per quello che accade nel Paese”. (Ismail Jaffar - Ansa)

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