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Il coraggio della felicità

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Per i Greci la felicità – sommo bene, desiderio supremo, scopo indiscusso della vita umana – dipendeva dal capriccio del caso, del fato, del destino, degli Dei. Finché un uomo non era morto, non si poteva mai sapere quanto felice o infelice sarebbe stata la sua fine. Ogni momento di felicità era minacciato dagli imprevisti del caso e dalle occulte predisposizioni del destino, che invano ci si ostinava a svelare attraverso gli aruspici, i maghi e gli oroscopi.

Forse ancora oggi, per i non credenti, la felicità consiste proprio in questa sua imprevedibile volatilità, che le conferisce un che di misterioso, imprevedibile, doloroso. Tuttavia, ogni uomo la desidera: perciò manda in suo soccorso le feste, il sonno, l’oblio, l’amore, la danza, l’amicizia, la sobrietà, la ragione, l’equilibrio, la disciplina, l’apprendimento, l’attenzione, la saggezza, la contemplazione della bellezza, l’educazione dei desideri, l’esercizio della virtù.

Essere felici, diceva Aristotele, significa “essere in possesso di cose buone e belle”. E poiché la virtù può procurarcele, la felicità – questa “forza possente e imprevedibile”, come la chiamava Platone – dipendeva anche da noi.

Alcuni riuscivano a conquistarne quantità maggiori di altri. Tutti, però, alternavano gioia e dolori, nostalgia e speranza, desiderio di vita e desiderio di morte. Erodoto diceva che “Per quanto breve sia la sua vita, nessun uomo è tanto felice da non desiderare più volte di essere morto”.

I Romani andavano meno per il sottile: l’essenziale era non lasciarsi scappare le occasioni, essendo esse sempre meno numerose di quanto vorremmo, perché la vita è breve e perché, dopo la morte, c’è solo il nulla. Perciò, Carpe diem!“Mio caro - dice Orazio - finché c’è ancora tempo, goditi i beni della vita e non dimenticare mai che i tuoi giorni sono contati”.

È in questo contesto tutto terreno, tutto centrato sulla fugacità della gioia e sulla necessità di coglierla a volo che irrompe il paradigma cristiano, rovesciando i valori e la stessa geografia della vita, destinata ad essere mortale in terra ma eterna in cielo.

Per i cristiani, la vera felicità non è di questa terra. L’uomo propone con la sua virtù e Dio dispone con la sua grazia e la sua giustizia. La Rerum Novarum di Leone XIII dirà che “per la felicità futura, le ricchezze di questo mondo nonché giovare, nuocciono”.

Ma, allora, cosa giova alla felicità? Ce loha detto oggi Papa Francesco in un messaggio ai giovani: "Quando cerchiamo il successo, il piacere, l'avere in modo egoistico e ne facciamo degli idoli, possiamo anche provare momenti di ebrezza, un falso senso di appagamento, ma alla fine diventiamo schiavi, non siamo mai soddisfatti, siamo spinti a cercare sempre di più". Ciò che invece dona felicità vera è la povertà di spirito, cioè l'umiltà. Domenico De Masi

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