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Giovani, come saranno le pensioni. Assegno tra 40 e 80%, uscita a 70 anni

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Come saranno le pensioni dei giovani? Molto diverse da quelle dei loro genitori. I giovani, per avere la stessa pensione dei padri, spesso di importo modesto, dovranno lavorare molti anni di più. È cambiata la filosofia del sistema. Con l’introduzione del calcolo contributo per tutti coloro che hanno cominciato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995 la pensione non sarà più una «retribuzione differita», cioè una percentuale dello stipendio (metodo retributivo), ma il frutto dei contributi versati in tutta la vita lavorativa. Per una buona pensione, quindi, sarà essenziale lavorare costantemente, fino a tarda età e avere stipendi alti. Condizioni non facili.

GRAFICO CORRIERE DELLA SERA

Rispetto alle generazioni passate, infatti, si entra nel mondo del lavoro generalmente più tardi, per ottenere un’occupazione stabile ci si mette più tempo e si cambia più spesso lavoro. Infine, rispetto al passato, non c’è più il paracadute dell’integrazione al minimo. Cioè il soccorso dello Stato che assicura comunque una pensione minima (oggi 500 euro) a chi con i contributi versati non raggiungerebbe neppure questa cifra. Un soccorso ampio, visto che su 16,4 milioni di pensionati ben 3,6 milioni beneficiano di una pensione integrata al minimo.



Ovviamente le cose andranno meglio per chi avrà una carriera lavorativa continua e lunga. Infatti, secondo le simulazioni della Ragioneria generale dello Stato, un lavoratore dipendente che andrà in pensione nel 2050 potrà prendere anche una pensione netta pari all’83,1% dell’ultima retribuzione netta (tasso di sostituzione). Ma per riuscirci dovrà aver lavorato per 40 anni e raggiunto 70 anni di età, che si prevede essere nel 2050 l’età per accedere alla pensione di vecchiaia (visto che il requisito attuale di 66,3 anni sarà periodicamente adeguato all’attesa di vita).




È vero che per chi ha cominciato a lavorare dopo il 1996, la riforma Fornero ha introdotto la possibilità di andare in pensione fino a tre anni prima, ma lo si potrà fare solo avendo maturato un importo pari ad almeno 2,8 volte l’assegno sociale (oggi significherebbe più di 1.256 euro lordi), altrimenti si dovrà arrivare fino a 70 anni. Insomma, i giovani la flessibilità ce l’hanno già, a patto però di avere un buon lavoro. La Ragioneria ha fatto le stime anche per costoro. Nel 2050 il nostro giovane potrebbe quindi uscire a 67 anni con 37 di contributi prendendo una pensione netta pari al 71,5% dell’ultimo stipendio netto. Un giovane, sempre nel 2050, potrebbe lasciare anche prima dei 67 anni. Ma per farlo dovrebbe aver lavorato per almeno 46 anni. Supponendo che abbia cominciato a 19 anni, dice la Ragioneria, potrebbe quindi andare in pensione a 65 anni con l’82% netto.



Tutte queste ipotesi sono fatte però sul cosiddetto scenario base che prevede una crescita media annua del prodotto interno lordo reale (al netto dell’inflazione) dell’1,5%, un’inflazione del 2% e una crescita delle retribuzioni reali dell’1,5%. Tutti fattori decisivi per il calcolo del montante contributivo e poi della pensione. Parametri che però appaiono ottimistici, almeno stando all’andamento della nostra economia nell’ultimo quindicennio. Simulazioni diverse, fatte per esempio da «Itinerari previdenziali» di Alberto Brambilla, ipotizzando un Pil medio dello 0,5% mostrano un calo di circa 10 punti del tasso di sostituzione. Stime condotte da altri istituti di ricerca giungono a conclusioni ancora più pessimistiche, con tassi di sostituzione che scendono fino al 40% dell’ultima retribuzione, scontando anche alcuni anni di buco contributivo a causa di licenziamenti e cambi di lavoro, ritenuti più probabili per le nuove generazioni. Va infine aggiunto che tutte le simulazioni prevedono tassi di sostituzione più bassi di 5-10 punti per i lavoratori autonomi, poiché questi versano un’aliquota contributiva inferiore (il 22% contro il 33% del lavoro dipendente).




Quando il metodo di calcolo contributivo fu introdotto, nel 1995 con la riforma Dini, ci si rese conto che l’equilibrio finanziario del sistema (tanto versi tanto avrai) veniva assicurato a scapito dei giovani che avrebbero preso, a parità di anni di contributi, molto meno dei loro genitori. Ma si disse che avrebbero potuto recuperare con la previdenza integrativa. Che però può permettersi solo chi ha un lavoro stabile e una retribuzione decente, destinando ai fondi anche il Tfr, cioè dicendo addio alla liquidazione che i loro padri prendevano andavano in pensione. Con le riforme successive alla Dini e l’aumento dell’età di pensionamento i tassi di sostituzione teorici sono saliti. Ma affinché si traducano in realtà non basterà lavorare di più, se l’economia non crescerà e la precarietà non diminuirà. (Enrico Marro - Corriere)

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