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Salus Infiormorum
Eccezionalmente densa di rinvii, di suggestioni, di allusioni quest’opera del maestro Ariante. Ancora una volta il suo linguaggio poetico, terso ed essenziale - grazie al taglio geometrico delle siluette, alla cifra cromatica e luministica di toni puri, fondamentali – riesce a trasmettere concetti che affondano in una solida antropologia e attingono all’immensa tradizione cristiana.
Su uno sfondo di fresca terra verde e di cielo quasi notturno, si staglia la figura di Maria di Nazareth. L’immediata riconoscibilità del soggetto è affidata al manto imperlato di stelle che la avvolge, quasi che gli astri dal firmamento siano precipitati per appuntarsi su di lei a celebrarla quale più umile e perciò più alta tra le creature (cfr Dante, Paradiso XXXIII).
La croce, delicatamente tracciata alle spalle della Vergine, la celebra quale Mater dolorosa, mentre gli angeli che la fiancheggiano sembrano sussurrare alle sue orecchie parole di amore, di speranza, di rettitudine, di amore.
La presenza angelica è eco dell’annuncio dell’incarnazione del Verbo e dell’annuncio dell’imminente ricongiungimento della Madre a Figlio divino il giorno dell’assunzione al Cielo, in una mirabile sintesi dei misteri mariani del rosario. Un cerchio di pallida luce aurorale unisce tra loro i diversi momenti della vita di Maria - gaudiosi, dolorosi, gloriosi - come a tracciare la parabola storica della Donna nuova.
Una verga intorno alla quale si avvinghia un serpente è in primo piano, benché non nella veste del protagonista. Il rettile ha una doppia polarità nella letteratura classica e biblica. È segno di rinascita, di “resurrezione”, poiché “svestendosi” della pelle vecchia quasi si … rinnova. Plinio narra che gli antichi vedevano nel serpente intelligenza e sentimenti particolari per la sua vita misteriosa e sotterranea, per la sua capacità di secernere veleni mortali e per la sua grande velocità pur senza organi motori, nonché per la sua capacità di ipnotizzare le sue prede. Per questo era anche sul caduceo del dio Mercurio e simbolo di Esculapio, dio della medicina. Astronomicamente la testa e la coda dei due serpenti rappresentavano i punti dell'eclittica in cui il sole e la luna si incontrano, quasi in un abbraccio. Metafisicamente, invece, il caduceo rappresentava la discesa della materia primordiale nella materia grossolana, mentre fisiologicamente era letto come le correnti vitali che scorrono nel corpo umano.
Caduceo e serpente nella visione pagana sono espressioni di una stessa realtà: il serpente è una specie di bacchetta magica usata dagli scaltri stregoni per espellere dal corpo dei malati gli spiriti maligni: il caduceo primitivo avrebbe avuto un carattere fallico, simbolo della vita e del rinnovamento e potrebbe preludere al caduceo di Esculapio che guarisce con il tocco.
All'opposto per la conformazione fisica e il veleno del serpente è istintivamente percepito come simbolo di falsità, malvagità, morte. Oltre il noto episodio genesiaco del diavolo tentatore, i serpenti tornano protagonisti anche durante l’esodo (Num 21,4-9). Si narra nel libro biblico che gli ebrei, stanchi di mangiare manna nel deserto, bestemmiano contro Mosè e contro Dio. L’atteggiamento ingrato scatena la giusta punizione: serpenti invadono l’accampamento seminando morte tra gli israeliti. Pentiti chiedono a Mosè di liberarli da tale flagello. E il profeta fa realizzare un serpente di rame e lo pone su un bastone: chi dopo essere stato morso avrebbe volto lo sguardo al serpente sarebbe rimasto immune dal veleno.
Il brano biblico certamente allude a serpenti veri, ma non si può non cogliere l’allusione alla tentazione della disperazione, del cedere allo sconforto e alla apparente forza preponderante del male. Cristo applicherà a se l’immagine veterotestamentaria del serpente di rame innalzato sul legno (Gv 3,14-15): guardando a lui che ha fatto del dolore e perfino della morte una “veste” per la sua carne divina, chi ha fede può trovare una ragione, uno senso, un fine, al proprio dolore fisico e morale e, perfino, alla morte.
Nell'economia del messaggio di questo “agiografo” che è il maestro Ariante, Maria evidenzia il suo ruolo di modello di donna fedele alla volontà divina; nel momento del dubbio, nel momento dello sconforto e della paura, nella notte della solitudine, perfino nel momento atroce del dolore al vedere il proprio figlio straziato e ucciso crudelmente: in lei la certezza che Dio è Amore vince anche la tentazione di credere che il male è più forte del bene, della verità di un Dio che è Padre, anzi Madre, per ciascuno dei suoi figli, senza distinzione. Annalisa Armani
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