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Don Bosco, padre e maestro della gioventù

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

     Don Bosco è uno di quei santi che sono sempre alla ribalta. Nessun sacerdote ha segnato più di lui la storia della Chiesa e dell’Italia nel XIX secolo. E il metodo pedagogico da lui inventato fu così innovativo da essere ancora valido nelle sue linee essenziali. Tanto che, il 24 gennaio 1989, Giovanni Paolo II, scrivendo a don Egidio Viganò (l’allora Rettor maggiore dei Salesiani), dichiarò il prete piemontese «padre e maestro della gioventù, stabilendo che con tale titolo egli sia onorato ed invocato, specialmente dai suoi figli spirituali». Redatta a conclusione dell’anno centenario della morte di don Bosco, la lettera così motivava la proclamazione: «I problemi della gioventù di oggi confermano, infatti, la perdurante attualità dei principi del metodo pedagogico, ideato da san Giovanni Bosco e incentrato sull’importanza di prevenire nei giovani il sorgere di esperienze negative, di educare in positivo con valide proposte ed esempi, di far leva sulla libertà interiore di cui sono dotati, di stabilire con essi rapporti di autentica familiarità, di stimolarne le native capacità, basandosi su: la ragione, la religione, l’amorevolezza».

 

  Ragione, religione, amorevolezza sono i tre pilastri del sistema educativo, che il santo attuò tra i giovani dell’oratorio di Valdocco prima ancora di trasmetterlo e lasciarlo in eredità ai suoi salesiani. A tali principi egli si attenne fin dall’inizio del suo ministero e di essi parlò in numerosi scritti, di cui il più noto è indubbiamente Il sistema preventivo nell’educazione della gioventù, edito a Torino nel 1877. Contrariamente a quello repressivo, allora vigente negli istituti di formazione e incentrato sulla punizione della trasgressione, il sistema preventivo era finalizzato a migliorare il giovane, a svilupparne il senso di responsabilità e a farne così un cittadino utile alla società. Ecco come come il suo ideatore lo spiegava nell’opuscolo del ’77: «Esso consiste nel far conoscere le prescrizioni e i regolamenti di un Istituto e poi sorvegliare in guisa che gli allievi abbiano sempre sopra di loro l’occhio vigile del Direttore o degli assistenti, che come padri amorosi parlino, servano di guida ad ogni evento, diano consigli e amorevolmente correggano, che è quanto dire: mettere gli allievi nella impossibilità di commettere mancanze.
Questo sistema si appoggia tutto sopra la ragione, la religione e sopra l’amorevolezza». Aspetto, quest’ultimo, che don Bosco incarnò fino all’ultimo giorno di vita e che così esplicitò ai suoi figli in quella sorta di testamento spirituale che è la lettera del 10 maggio 1884: «Che i giovani non solo solo siano amati ma che essi stessi conoscano di essere amati».

 

  Da qui la necessità per gli educatori di essere sempre e ovunque in mezzo a loro. Una presenza, insomma,  – quella che il santo chiamava “assistenza” – amorevole, vigile, familiare, più eloquente e fattiva di tante parole. Da più di un secolo e mezzo è quanto gli oltre 16mila salesiani si sforzano di attuare in ogni parte del mondo, memori di quelle raccomandazioni che il fondatore lasciò loro nel suo “testamento spirituale”: «Sapete che cosa desidera da voi questo povero vecchio che per i suoi cari giovani ha consumata tutta la vita?  Niente altro fuorché, fatte le debite proporzioni, ritornino i giorni felici dell'Oratorio primitivo. I giorni dell'affetto e della confidenza cristiana tra i giovani e i Superiori; i giorni dello spirito di accondiscendenza e di sopportazione, per amore di Gesù Cristo, degli uni verso gli altri; i giorni dei cuori aperti con tutta semplicità e candore, i giorni della carità e della vera allegrezza per tutti».

FRANCESCO LEPORE

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