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Chiara Gamberale: "Attraversare il dolore per diventare migliori di quello che siamo"

Giuseppe Fantasia www.huffingtonpost.it
Pubblicato il 09-03-2019

Tutti mi sgridano che dovrei avere una persona fissa

"È una vita un po' da pazza quella che sto facendo, perché quando una figlia ti arriva tardi, a quarant'anni, io ci voglio stare. Tutti mi sgridano che dovrei avere una persona fissa, un libraio mi ha detto: 'ma che dormi sola?' A me non interessa, io sono qui per lei".

Chi ci parla così è la scrittrice Chiara Gamberale, autrice di più di dieci libri bestseller tradotti in sedici Paesi che oggi torna con un nuovo romanzo, "L'isola dell'abbandono" (Feltrinelli), già in vetta alle classifiche dei più venduti. Ci apre la porta della sua bella e luminosa casa romana con vista mozzafiato che conosciamo bene, ma oggi lo spettacolo vero che abbiamo davanti ai nostri occhi è un altro: una bambina con i capelli castani scuri come i suoi, lo stesso sguardo, desiderosa (giustamente) di attenzioni, socievole e sorridente nonostante la febbre alta. Si chiama Vita, ha un anno e tre mesi ed è sua figlia. È arrivata all'improvviso, sicuramente il regalo più bello che potesse ricevere per quel compleanno importante, un po' come accade nel libro ad Arianna, una donna che è appena diventata madre di Emanuele e che deve fare i conti con un uomo difficile, con quello con cui l'ha avuta e la difficoltà a considerarsi una famiglia e con quello desiderato. "La nostra è una situazione particolare", ci spiega . "Il padre è a Milano, ma ama da morire Vita e quando può c'è. Abbiamo un ottimo rapporto. Durante la settimana sono da sola con lei, ma mi sono iscritta a dei siti per capire cosa fanno persone nella mia stessa condizione che poi, come accade spesso nei miei romanzi dove ho sempre celebrato le famiglie alternative, la mia è una famiglia a tutto gli effetti. Famiglia è dove famiglia si fa". Vita è una bimba che va incontro a tutto con curiosità, è abituata all'altro, avverte poco il senso del pericolo. "La maestra dell'asilo mi ha fatto i complimenti perché nel suo caso ha detto che è stato un inserimento facilissimo. Da un lato sono sola, ma dall'altro molto meno sola di quelle mamme il cui compagno vive con loro, ma la sera torna a casa tardi e sono sole tutto il giorno. Io ho i madrini, le amiche, la mia Arca di Noè, come la chiamo spesso nei miei romanzi. Ha avuto delle defezioni importanti che mi hanno straziato il cuore, però chi è rimasto su, c'è e si sente".

Quando la vita irrompe, è sempre il contrario di quello che ci assomiglia: è accaduto anche a lei?

"È così e penso che lo fa non tante volte, altrimenti saremmo degli psicopatici. Secondo me irrompe quando nasce un figlio, quando ci innamoriamo, quando ci abbandona la persona della nostra vita, quando qualcuno muore e anche quando ci ammaliamo o qualcuno di caro si ammala, come mi ha fatto notare una lettrice. Sono i momenti fatali in cui la vita fa lei".

Che romanzo è "L'isola dell'abbandono"?

"È un romanzo dove io non racconto questi quattro eventi, ma ciò che ci succede dopo, perché la vita irrompe – come dicevamo - e quando questo accade, diciamo "finalmente" oppure "maledizione". Però la differenza la fa quanto noi ci mettiamo a disposizione di questa irruzione e quanto accettiamo di cambiare. Conosco persone che dopo morti, innamoramenti, dopo i figli, rimangono gli stessi che erano prima e ho sempre avuto paura di essere tra loro, perché se ha un senso questo nostro venire al mondo, sta proprio nel dare alla vita la possibilità di farci fare almeno un passo avanti rispetto a quei bambini che eravamo. Michele Mari scrive che è successo tutto laggiù. Sì, è vero, è successo quasi tutto laggiù, però so che un piccolo passo lo si può ancora fare".

La maternità sorprende?

(Nel frattempo, mentre ci parla, sua figlia ci porta il libro delle emozioni e ride)

"A me ha sorpreso ed è per questo che l'ho chiamata Vita, non solo per papà (Vito Gamberale, ndr). Da piccola ho sempre pensato che avrei avuto quattro figlie femmine, non mi sono mai immaginata senza figli. Ero all'alba dei quaranta e ho pensato che a furia di essere un'eterna adolescente, non mi sono resa conto del passare del tempo. Oggi non ti accorgi di passare dai trenta ai quaranta, pensi sempre di avere vent'anni. Nel mio caso si parlava di utero inospitale, che ci sarebbero state delle difficoltà, ma poi una figlia è arrivata quando non ci credevo più".

Coma ha vissuto il passaggio dall'essere figlia all'essere genitore?

"Quando diventi genitore, passi dall'io al tu, l'io non c'è più. Io lo avevo fatto almeno da due anni e mi stavo predisponendo a vivere questo passaggio senza avere dei figli. Avevo avuto un ragazzo in affido per due anni portato fino al diploma che oggi fa il geometra, ma non sta più a Roma, è in Danimarca, ci sentiamo ancora. Da due anni, poi, faccio volontariato tutti i sabati con VolontAriaMente, un'associazione con cui andiamo a prendere i pazienti delle diverse comunità psichiatriche e li portiamo in giro per Roma con un pulmino a vedere monumenti, parchi, mostre. È un'esperienza che ti ingaggia totalmente. La prima volta che sono andata, un'altra volontaria mi parlava ed io parlavo a lei perché entrambe pensavamo di essere due malate, è stato stupendo (ride, ndr). Quando non ci pensavo più, nel momento in cui stavo arredando la mia vita in maniera diversa - avrei compiuto 40 anni il 27 aprile - il 31 marzo ho scoperto di essere incinta".

Come ha reagito?

"Come la protagonista del mio romanzo, anche io penso che nella mia testa è sempre tutto contraddittorio, ma in quel preciso momento in cui ho visto quel test di gravidanza – tornavo da Bari, avevo le nausee ed ero in aereo – beh, è stata un'emozione grandissima. Il papà di Vita vive a Milano e viene ogni due week end a trovarla, sono legatissimi. La nostra è sempre stata la storia di due persone con un passato invadente che vivevano in due città diverse. Gestire il nostro passato è delicato, ma nonostante questo, quando ho visto quel test, ho visto solo dei sì. Tutte le Chiare dentro di me hanno detto sì".

Che gravidanza ha vissuto?

"Non è stata una gravidanza facile, perché all'inizio non si sentiva il cuore, poi c'era una strana massa. La partenza è stata faticosa, ma poi tutta la gravidanza è stata bellissima. Mi pare che va troppo bene tra me e Vita, l'ho detto anche allo psicologo giorni fa e lui: "per una volta"! Ci siamo messi a ridere. Come figlia, la mia è stata una relazione tormentatissima, come moglie non ne parliamo neanche, le amicizie vanno bene, ma come madre è davvero tutta un'altra cosa".

Da quando è nata sua figlia "è rimasta piuttosto sola" come fa dire alla sua protagonista o il contrario?

"A me, interiormente, la gravidanza mi ha trovato pronta. Ero in una comunità di persone senza figli, la famosa "Arca senza Noè" di cui le parlavo. Adesso la chiamo le "persone figli". La maternità è un circolo vizioso: chi c'è, c'è, chi non c'è, non c'è più. Un mio amico mi disse: quando hai un figlio, gli altri si dividono in problemi o aiuti e un po' è vero. Sono commossa da amici straordinari che fanno famiglia con me e Vita. Il vestito di Puffetta per Carnevale, ad esempio, lo hanno cucito Marco e Manuela, che io chiamo i madrini di Vita".

Delusioni ne ha avute?

"Purtroppo sì. Ho avuto due delusioni mortali, ma pensando alle persone, questo passaggio dall'io al tu fa la differenza. Ci sono persone che lo hanno fatto non essendo genitori e persone che sono genitori e non lo hanno fatto. Le delusioni ci sono state e mi hanno fatto male. La più impensabile è stata quella dal mio cane di sedici anni, Tolep, che ha vissuto malissimo l'arrivo di mia figlia. La scorsa estate ha aggredito la signora che mi aiuta con le pulizie. Sono rimasta scioccata, perché è un cane buonissimo, un peluche. L'ho dovuto portare in un posto a Bracciano, dove sono ambientate tante pagine de "La zona cieca" e di "Adesso" (due suoi bestseller, ndr) e pensi che quel giorno ho ricominciato a fumare, perché per me è stato un trauma. Vado a trovarlo una volta al mese, anche se poi mi chiedo se sia una cosa egoistica andarlo a trovare, ma mi manca da morire. Poteva aggredire Vita, sono stata un po' superficiale, ma ho pagato. Oggi sta benissimo. Che prezzo alto mi ha chiesto l'arrivo di questa bambina ma quanto è bello viverla!".

Il libro è dedicato "a chi resta", "riparare i viventi", direbbe Maylis de Kerangall...

"Sono d'accordo. È proprio così. Chi pensa a chi resta? In "Qualcosa", la mia favola, c'è la frase: "la morte non significa che qualcuno se ne va, ma che tu nel frattempo resti". Questo è un libro che affronta il tutto con una lingua un po' più complessa, che serviva però per raccontare questa storia".

(Nel frattempo ci interrompe sua figlia che arriva con un fazzolettino in testa e lei la chiama "Suor Pannolina". È attratta dal nostro smartphone, un oggetto estraneo alla Gamberale che da quando la conosciamo, più di dieci anni, si ostina a comprare lo stesso modello, vecchissimo, di cellulare. "Su Amazon ne trovo sempre uno di scorta", ci dice con un certo orgoglio. "Vediamo però cosa succederà con le chat delle mamme. Ogni tanto, mi dicono, un'informazione reale passa anche lì, quindi forse dovrò cambiare idea in merito". Speriamo.)

Il titolo scelto all'inizio era "In asso", molto legato ai suoi studi classici e a questa storia. Poi?

"In asso era brutto. Ho scelto questo perché era un modo per festeggiare due parole - isola e abbandono - che nei miei libri ci sono tanto. C'è l'abbandono del venire abbandonati, ma anche la fatica di abbandonarsi quando avremo l'occasione di farlo".

Che donna è Arianna?

"Arianna è una donna che ha paura fin da piccola e in uno squarcio del libro si capisce che figlia è stata. Ha sofferto la sua sindrome dell'abbandono, ha avuto un padre che non c'è stato e in questo è molto diversa da me che ho avuto invece un padre iper presente. Lei, suo padre lo ha visto sempre di spalle. È una donna terrorizzata e 'sbaracca' dai suoi bisogni a quelli degli altri pensando così di non essere abbandonata. Arianna è una donna con gli occhi da animale ferito: teme di essere abbandonata e perde la sua ragione dietro un uomo, Stefano, il suo primo, disperato amore, che costantemente la ferisce portandola a momenti molto umilianti".

Un uomo a dir poco spaventoso...

"Sì. A differenza degli altri miei romanzi dove l'uomo disturbato era un'occasione di poesia, qui no, qui è un vicolo cieco. Volevo raccontare – e questo anche grazie al lavoro di volontariato che svolgo il sabato - quanto una persona che è così disturbata come lui può trascinarti nel labirinto anziché uscire, grazie al tuo aiuto, dal labirinto. In tutti gli altri miei romanzi c'è la diversità e se ne vede il suo aspetto poetico, qui mi sono concentrata di più sull'aspetto doloroso".

È lui l'uomo labirintico, l'uomo che non cerca mai la verità, ma sempre e soltanto Arianna, come disse Camus.

(La bimba si lamenta delle poche attenzioni e dal letto dove siamo si dirige verso la scrivania, apre un anta e inizia a tirare fuori tutti i quaderni delle elementari della madre, ndr)

"Sì, è così. Le persone labirintiche contagiano gli altri delle loro mancate elaborazioni, non le elaborano mai. Contagiano un po' il mondo delle loro mancate elaborazioni, entrano nella tua vita per elaborare ma poi non lo fanno mai. Sono anche persone cicliche, cambiano persona, ma fanno sempre lo stesso gioco. Ci sono due modi per elaborare le separazioni, come leggevo l'altro giorno: congelarsi nell'odio o mettersi subito qualcuno vicino. Il percorso di Arianna dura dieci anni, non odia Stefano, ma pensa a lui".

Si può restare amici quando una relazione finisce e riuscire a trasformarla in una forma di amore diverso?

"Quelle persone che abbiamo amato le ameremo per sempre, nonostante la cosa ci strazi il cuore. È come se uno non si fosse mai lasciato. È una follia che una persona con cui ti davi il buongiorno e facevi mille cose non la senti più perché ti lasci. Tutte le persone che abbiamo amato sono un po' genitori di nostro figlio, perché siamo tutte quelle esperienze. Ci vuole coraggio, ma bisogna essere in due ed essere un po' onesti l'uno con l'altro. Io credo che ci si lasci un po' come si è stati insieme".

La gioia e il dolore sono un'opportunità?

"Sì, per me lo sono entrambi. Se il dolore non lo attraversi, ti blocca. Deve essere attraversato per diventare meglio di quello che siamo". (www.huffingtonpost.it).


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