La veste di Francesco

di Franco Cardini

L’abito non fa il monaco, si dice. Sarà vero anche per i frati? E quello di Francesco, com’era? Anche lì, siamo un po’ incerti. Come per la barba.
E’ stato Maurizio Calvesi, in un saggio ormai divenuto un “classico”, a chiedersi se Francesco avesse o meno la barba. Il che, in effetti, nel primo Duecento era un problema. E’ noto che ordinariamente i romani non portavano la barba, salvo i militari durante le campagne che li vedevano impegnati in luoghi lontani; d’altronde la barba, oltre che essere tipica dei viaggiatori, lo era dei filosofi, secondo l’esempio greco: e in effetti divenne più comune a partire dal II-III secolo. Anche la polemica sulla barba portata dall’imperatore Giuliano, anch’egli appunto un filosofo, è rimasta celebre. La barba era tipica dei bizantini, ma non dei “franchi”, degli europei occidentali, almeno per tutto il cosiddetto Alto Medioevo, nonostante nel mondo germanico ve ne fossero degli esempi. I ritratti più noti di Carlo Magno che lo presentano semmai dotato di baffi spioventi. Portava notoriamente la barba Federico I, che difatti fu definito dai suoi avversari italiani con il termine dispregiativo di “Barbarossa” (anche Nerone era Enobarbus). Ma egli rivendicò orgogliosamente quell’epiteto che faceva paura: d’altronde, la sua barba derivava forse dal suo pellegrinaggio armato in Terrasanta tra 1147 e 1149, quello che noi chiamiamo la “seconda crociata”. Ma nel corso del Duecento la barba non era alla moda, mentre lo divenne nel Trecento per venir di nuovo abbandonata nel successivo, ripresa nel Cinque-Seicento, abbandonata di nuovo nel XVII secolo, riportata in auge dai romantici, scomparsa o ridotta per frequenza e per dimensioni durante il Novecento salvo ritornare alla grande con il Sessantotto. Al tempo di Francesco, effettivamente, è difficile orientarsi riguardo a quest’uso: e le stesse testimonianze iconiche non ci aiutano con tutta sicurezza.

E per l’abito? E’ ovvio che, spogliatosi dei comodi panni che aveva restituito al padre al cospetto del vescovo assisano, egli dovette assumere vesti penitenziali per qualificare il suo nuovo status. Ma le fonti non sono precise al riguardo: abiti poveri certo, non succinti ma nemmeno troppo lunghi (la lunghezza era segno di una solennità di status e di funzioni che riguardava piuttosto i religiosi e i laici importanti), senza dubbio colorati con materiale tintorio povero o addirittura grezzi, com’erano le vesti monastiche dei cistercensi. Si parla di un colore “cinereo”, tra il bruno e il bigio: e le reliquie del suo abito presenti ad assisi e a Firenze ce lo confermano. Ancora una volta, non possiamo fidarci delle fonti iconiche, le quali in genere si adeguano alle vesti usate nelle varie famiglie minoritiche. Anche il “cinerino”, che prima del Vaticano II era usato dai vescovi che provenivano dall’Ordine dei Minori e oggi è stato riscoperto (con una tonalità che vira verso quel che in Italia è noto come l’azzurro “carta-da-zucchero” o “aeronautica”), è storicamente arbitrario.

Ma sulla forma dell’abito del Povero d’Assisi, forse, le incertezze possono essere minori: per quanto essa dovette venir immediatamente o quasi regolata nel semplice e austero aspetto che ci è familiare. In realtà, è probabile che la veste scelta da Francesco e dai suoi “poveri penitenti di Assisi” avesse l’aspetto di un sacco dritto, munito di maniche ampie ma dritte anch’esse e non troppo lunghe, di una lunghezza che non doveva arrivare troppo sotto al ginocchio. Insomma, un capo di vestiario che conosciamo fin troppo bene fino dall’età romana e che non doveva essere mutato da allora. Era l’abito contadino romano, un capo di vestiario a sua volta d’origine celtica, cioè una vecchia camicia militare smessa.Si tratta del sagum, termine che ha dato in italiano i sue esiti di “sacco” e di “saio”. Il vecchio ex-legionario, che aveva ricevuto il suo campicello a titolo di quello che oggi gli statali definirebbero TFS (“trattamento di fine servizio”), insomma di liquidazione-pensione, usavano la loro vecchia camicia militare per andar al lavoro, più o meno come hanno fatto fino a tempi recentissimi (oggi le varie tute postmoderne, che sono divenute l’abito d’ordinanza del nuovo Lumpenproletariat, hanno sostituito quei cari vecchi indumenti grigioverde o kaki).

Ai tempi di Francesco i legionari romani non c’erano più, ma il sagumera restato. E anche l’uso di cingerselo alla vita con una semplice corda al posto della cintura, che anche se di pelle o di cuoio semplice e dotata di grossolana fibbia era pur sempre un lusso. In effetti il “vestirsi di sacco” e il cingersi con una corda, magari portata al collo a mo’ di capestro, era appunto un modo per presentarsi in veste di penitente e/o di pellegrino.

Quando poi la fraternitasdivenne ordo, la Chiesa provvide anche a formalizzare il sagumallungandolo, disciplinandolo nella lunghezza, nell’ampiezza, nel tipo di cappuccio e nel colore, insommarendendolo più consono alla solenne tradizione chiericale. Ma Francesco, giullarescamente, usava farsi riparare il suo aggiungendovi delle toppe di colore, che spesso con una nota di humour erano pezzi di vecchia stoffa magari originariamente di lusso. Fu così che il sagumdette origine al saio dei Minori mentre il Fondatore, piuttosto, ispirò la veste di Arlecchino. Una bella giullarata. Vedete che il vecchio Dario Fo, scherzando scherzando, finisce che c’indovina?
D’altra parte, l’abito di Francesco aveva una forma precisa. Era la forma della croce. E ciò, da solo, suggerisce molto di più di qualunque altra osservazione.