Guardare oltre per arricchirsi davanti a Dio
Le meditazioni quotidiane di papa Francesco sono di una semplicità sconvolgente: hanno
la forza di arrivare al cuore della gente e di mettere in crisi certi nostri modi di pensare e di
essere chiesa che sono fin troppo “stagionati”.
Nella meditazione di giovedì 25 febbraio, intitolata Il nome e l’aggettivo, papa Francesco
ha parlato della religione del dire e di quella del fare. Lo spunto è stato offerto dalla
parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone. Quest’ultimo si è trovato in una
condizione definitiva di morte, di esclusione dalla vita, dall’amore, per sua libera scelta. È
l’inferno, quella solitudine irreversibile che accompagna chi si è illuso di essere sulla via
della vita e di attendere da Dio una ricompensa per i risultati raggiunti: ricchezza, fama,
potere, gloria… In realtà, ci ricorda papa Francesco, il ricco epulone – di cui non sappiamo
neanche il nome – è chiuso in se stesso ed è definito dagli altri con un aggettivo e non con
un nome proprio di persona. Egli non è in grado di sentire i bisogni degli altri, di guardare
alle necessità concrete del povero Lazzaro. È forse questa la condizione di morte nella quale
viviamo: siamo troppo “autocentrati”, guardiamo solo a noi stessi, nella ricerca spasmodica
di una felicità effimera, solitaria, egoistica. A volte non abbiamo la forza di guardare oltre,
di stare accanto a chi soffre. Eppure nella Bibbia la ricchezza è segno della benedizione
divina, di protezione. Dov’è che il ricco epulone ha sbagliato?
Il papa ci interroga personalmente: «la mia gioia è “nell’uscire da me stesso per andare
incontro agli altri, per aiutare”, oppure “la mia gioia è avere tutto sistemato, chiuso in me
stesso?”». Lazzaro, ha aggiunto il papa, con i suoi bisogni e le sue miserie, le sue malattie,
«era proprio il Signore che bussava alla porta, perché quest’uomo aprisse il cuore e la
misericordia potesse entrare». Il ricco, invece, «non vedeva», «era chiuso» e, «per lui, oltre
la porta non c’era niente». Il ricco epulone non aveva compreso che amare ed essere amati è
la risposta al problema dell’uomo e al senso della vita. La ricchezza lo aveva reso ceco,
incapace di vedere le necessità del povero che gli stava accanto. La cecità, infatti, subentra
in noi nel momento in cui non sappiamo arricchirci (in ogni senso) davanti a Dio, ossia
guardando ai bisogni del prossimo. Il ricco epulone ha confidato solo in se stesso, chiuso nei
suoi beni, incapace di guadare oltre per accogliere l’altro. È curioso: in ebraico, la radice del
verbo credere e della stessa fede (amen) è la medesima di quella del termine mammona
(‘mn) che indica la ricchezza come idolo, quasi un’altra divinità.
In questo tempo di Quaresima dobbiamo chiedere al Signore la grazia «di vedere sempre
i Lazzari che sono alla nostra porta, i Lazzari che bussano al cuore» e quella di «uscire da
noi stessi con generosità, con atteggiamento di misericordia, perché la misericordia di Dio
possa entrare nel nostro cuore». Questo perché non ci salviamo da soli: abbiamo bisogno di
condividere tutto il bene che abbiamo (di arricchirci davanti a Dio) e tutta la gioia che
sperimentiamo nella nostra vita con chi non ha nulla, con quanti non hanno neanche quel
minimo di vita per sorridere, per sopravvivere, per riconoscersi figli di Dio e nostri fratelli.