Francesco e Ignazio. Un equivoco da dissipare.

di Franco Cardini

Ad alcuni mesi dall’elezione e dall’ascesa di Jorge M. Bergoglio al soglio pontificio si continua ancora a polemizzare, tra l’altro, sull’opportunità della sua scelta del nome Francesco e sulla problematicità se non addirittura la contraddittorietà di tale scelta rispetto alla sua vocazione gesuitica: ciò sulla base, soprattutto, del presupposto (e dell’equivoco) di una tensione storica, se non addirittura di un’ostilità, tra l’Ordine minoritico e la Compagnia di Gesù.

Le voci che continuano a sostenere tale dicerìa si basano sulla conoscenza affrettata, superficiale e lacunosa di alcuni episodi storici relativi soprattutto alla rivalità tra francescani (e domenicani) da una parte, gesuiti dall’altra, nei continenti asiatico e americano tra Sei e Settecento: siamo davanti, come spesso accade, a una di quelle “mezze verità” che sono in effetti peggiori delle menzogne.

Ma, mentre su questi eventi storici (purtroppo finora piuttosto sconosciuti specie al più vasto pubblico italiano) si comincia oggi a far un po’ di luce anche al livello divulgativo, insufficiente resta purtroppo la conoscenza dei veri connotati del messaggio di Francesco; e più ancora quella di Ignazio.

La verità è invece trasparente, anzi risplendente. Il nobile Iñigo de Loyola, nato nel 1491 ad Azpeitia nel Paese Basco, racconta nel primo paragrafo della sua autobiografia Il racconto del pellegrino (ed.it. a cura di R. Calasso, Adelphi 1966) , redatta alla fine della sua esistenza (morì nel 1556), come da giovane sognasse le avventure cavalleresche e l’amore di una giovane principessa: ma nel 1521, rimasto ferito durante l’assedio di Pamplona e volendo leggere durante la convalescenza qualcuno die suoi prediletti romanzi dedicati ai cavalieri erranti, trovò nel luogo dov’era ricoverato solo una Vita di Cristo e un Flos Sanctorum. Quelle letture devote gli aprirono il cuore alla conversione: e in modo speciale egli rimase toccato proprio da quegli che gli apparvero gli “atti eroici” di Francesco e di Domenico, compiuti per la gloria di Dio. Appena ristabilito, fu proprio ispirandosi all’esempio di Francesco il quale aveva rinunziato alle fantasie giovanili di gloria cavalleresca per una più alta Milizia che egli si recò in pellegrinaggio al santuario di Nostra Signora di Monserrat alla quale, dopo una veglia notturna passata in preghiera – appunto secondo gli usi dell’addobbamento cavalleresco – lasciò come ex voto le sue armi e scambiò i suoi ricchi abiti con quelli di un povero. Iniziò così la sua militia Christi, cui si accompagnarono poi il pellegrinaggio a Gerusalemme e la lettura delle opere di Nicola Cusano e di Erasmo da Rotterdam che avrebbero caratterizzato la sua vocazione spirituale e il suo impegno teologico-culturale.

Il rispetto profondo per tutte le tradizioni religiose, in ciascuna delle quali rifulge una parte della Rivelazione primordiale che sta alla base della stessa Tradizione cristiana, nacque in Ignazio – e fu trasmesso all’intera Compagnia - dalla considerazione dell’episodio della visita di Francesco al sultano d’Egitto e dallo studio del grande trattato De pace Fidei di Nicola Cusano nel quale tutti i popoli della terra, ciascuno nel loro linguaggio (cioè appunto secondo la sua rispettiva tradizione), rendono omaggio al trono dell’Altissimo. Tale ispirazione sarebbe stata mantenuta e sviluppata dal padre Matteo Ricci in Cina, dai “riti malabarici” dei gesuiti in India, dall’esperienza delle reducciones dei tupi-guaraní fondate dalla Compagnia nelle colonie spagnole e portoghesi dell’America latina sei-settecentesca (e le rovine delle quali sono oggi distribuite tra Argentina, Paraguay e Brasile). Se non si riflette attentamente su tutto ciò, il significato della testimonianza di questo gesuita latino-americano che divenuto papa sceglie il nome di Francesco resta incomprensibile.