Francesco e gli ammalati

di Don Felice Accrocca

Perché il dolore? E perché il male?
La domanda torna spesso in forma drammatica, inevitabilmente legata a situazioni di sofferenza che tante volte toccano da vicino la persona che si pone il tremendo interrogativo. Domanda capace di mettere in discussione anche il rapporto con Dio.

Frustrazione e conflitto dominano incontrastati quando il dolore e la sofferenza sono visti come conseguenza di un male morale, di una colpa che l'individuo sofferente dovrebbe avere in qualche modo commesso. Fu questo il dramma angoscioso di Giobbe, che visse un dolore innocente tra l'incomprensione dei conoscenti, i quali si sforzavano di convincerlo che la sua sofferenza era causata da una qualche colpa da lui commessa. Ma anche i discepoli di Gesù credevano che il peccato fosse radice dell'infermità e del male fisico. Quando un giorno videro un uomo cieco dalla nascita, essi interrogarono il Maestro: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”. La risposta di Gesù non lasciava possibilità di equivoci: “Né lui ha peccato né i suoi genitori” (Gv 9,2-3).

Eppure, ancor oggi, quando sembra eclissarsi la percezione della presenza di Dio, questa convinzione appare dura a morire! Una situazione contraddittoria che rischia di rendere strabici: da un lato si tende ad emarginare Dio dall'orizzonte della storia, a negare la sua realtà di Signore della vita e perfino la sua stessa esistenza; dall'altro si attribuisce a lui la responsabilità della malattia, del dolore, della morte e di ogni tipo di sofferenza. Dio appare così come Signore della vita e della morte, ma solo in certe situazioni, quando è chiamato, cioè, a interpretare il ruolo di un padre ingiusto e crudele, che pone sulle spalle degli uomini pesi insopportabili. In tal modo, si finisce per dimenticare che anche Dio ha indossato i panni del dolore; che Gesù Cristo è morto ancor giovane, di una morte immeritata e violenta, provocata proprio da quegli uomini per cui moriva. È umano tutto ciò; a volte tale modo di pensare si presenta come reazione istintiva alla quale è difficile sottrarsi: ma è una reazione logica?

In fondo, non abbiamo scelta: o accettiamo la Persona di un Dio che “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8), riconoscendolo come Signore della nostra esistenza, oppure lo rifiutiamo interamente, tentando di spiegare il dolore e la morte in modo diverso, come molti hanno fatto con drammatica coerenza: giustamente, il padre Henri De Lubac parlava di “dramma dell'umanesimo ateo”.

Francesco è tra coloro che hanno accolto Dio in totalità, e per questo è riuscito a comprenderlo fin nel mistero del dolore. Egli ha compreso il senso del suo stesso dolore, perché in primo luogo ha compreso il dolore di Dio, e questa sofferenza divina egli l'ha avuta sempre davanti a sé. I suoi compagni raccontarono un episodio significativo, affermando di averlo appreso dalla viva voce di chi ne fu testimone:

“Una volta, pochi anni dopo la sua conversione, camminando un giorno solitario per una via non molto distante dalla chiesa di S. Maria della Porziuncola, piangeva e gemeva ad alta voce. Proseguendo in tal modo nel suo cammino, gli si fece incontro un uomo spirituale, che noi abbiamo conosciuto e da cui abbiamo saputo questo fatto. Costui aveva usato molta misericordia e consolazione a Francesco, sia quando non aveva ancora alcun fratello che in seguito. Mosso a pietà, quest'uomo lo interrogò: «Cos'hai, fratello?». Credeva infatti che soffrisse dolori a causa di qualche infermità. E Francesco: «Dovrei andare così per tutto il mondo, piangendo e gemendo senza vergogna la passione del mio Signore». Quell'uomo allora cominciò a piangere fortemente e lacrimare con lui” (CAss 78: FF 1608).

Il ricordo della passione dolorosa del Signore rimase costantemente vivo nella memoria di Francesco. E grazie a questo ricordo egli riuscì a comprendere il dolore degli altri, a essere loro vicino. Nei poveri e nei malati Francesco rivedeva il Cristo sofferente. La memoria del dolore del Signore lo spinse verso i lebbrosi, coloro cioè che nella società del tempo rappresentavano l'aspetto più ripugnante e repellente; questa stessa memoria lo rese attento a coloro che soffrivano per ogni tipo di infermità o di penuria, come quella volta che, in un eremo presso Rocca di Brizio, gli si presentò davanti un povero che alla penuria di mezzi aggiungeva una cattiva salute. In una società che non offriva certo le garanzie che in situazioni analoghe offre un moderno stato sociale, la condizione di un mendicante, per di più malato (ostacolato quindi anche nel mendicare), doveva essere veramente difficile, per non dire tragica.

“[...] Al vederlo, [Francesco] cominciò a considerare la povertà e l'infermità di lui così che, mosso a compassione in forza di ciò, prese a parlare al suo compagno di quella nudità e infermità, compatendo quell'uomo. Gli rispose il suo compagno: «Fratello, è vero che costui è assai povero, ma in tutta la provincia non c'è forse un uomo più ricco di lui nella volontà». Francesco lo rimproverò di aver parlato male e così il compagno disse la sua colpa. E disse a lui il beato Francesco: «Vuoi fare la penitenza che ti dirò?». Rispose: «Volentieri». Gli disse: «Va', spogliati della tonaca e presentati nudo dinanzi a quel povero, gettati ai suoi piedi e digli come hai peccato contro di lui, poiché lo hai disprezzato. E digli che preghi per te affinché Dio ti perdoni». Andò dunque il compagno e fece tutto come gli aveva detto il beato Francesco. Ciò fatto, si rialzò, si rimise la veste e tornò dal beato Francesco. E il beato Francesco gli disse: «Vuoi che ti dica come hai peccato contro lui, o meglio contro Cristo?» E disse: «Quando vedi un povero, devi considerare colui in nome del quale viene, e cioè Cristo, che venne ad assumere la nostra povertà e infermità. Infatti, la povertà e la malattia di questo mendicante è per noi come uno specchio nel quale dobbiamo scorgere e considerare con pietà la povertà e infermità del Signore nostro Gesù Cristo, le quali egli portò nel suo corpo per la salvezza del genere umano»” (CAss 114: FF 1668).

Il ricordo del dolore del Signore generò dunque in Francesco una solidarietà profonda con i malati: essi rendevano ancora presente il Cristo; era Lui, infatti, che aveva assicurato: “Ero malato e mi avete visitato” (Mt 25, 36). Anche per noi dovrebbe essere così! Il contatto col mondo della sofferenza non dovrebbe avvenire unicamente sotto la spinta di una solidarietà umana; a muoverci dovrebbe essere infatti la memoria del dolore di Cristo, che per noi dette SE stesso. Allora il malato diverrà egli stesso il Cristo sofferente, e il contatto con lui ci arricchirà veramente e arricchirà pure il malato.