Catastrofi naturali: Perché agli innocenti non è risparmiato tanto dolore?

di Edoardo Scognamiglio

«O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: sopra i cieli si innalza la tua magnificenza. Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli. Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi […]. O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra» (Sal 8,2-7.10). Se è vero che la Sacra Scrittura è Parola di Dio, allora l’interrogativo posto nel Salmo 8 non è una semplice domanda sul mistero dell’uomo da parte nostra. No. I Salmi sono ispirati dal Signore e, dunque, l’interrogativo è di Dio! 1. Siamo una domanda aperta L’uomo è la domanda aperta di Dio, il suo stesso mistero. A parlare, infatti, in questo salmo, è Jhwh stesso. Il salmista, dopo aver contemplato la maestà e la bellezza dell’universo – fino a considerare gli astri del cosmo (luna e stelle) come una cornice incastonata attorno all’opera più bella, il prodigio divino della creazione che è l’uomo –, s’interroga sul valore che l’essere umano, come essere vivente ma fragile, assume alla sua presenza, ai suoi occhi. Dio sembra dirci, attraverso lo stupore e la contemplazione del salmista, che noi valiamo più degli angeli, che siamo il bene più prezioso ai suoi occhi. Non c’è, infatti, alcuna creatura vivente – animale e vegetale – che possa smuovere il cuore di Dio. Solo Adamo, tratto dalla polvere rossa, dal fango, dalla terra, plasmato dalle mani del Padre – la Parola-Verbo e il Soffio-Spirito (sant’Ireneo di Lione) – ha il potere di commuovere Dio, di muovere il suo cuore. Per Adamo, solo per il figlio dell’uomo, fremono le viscere dell’Eterno: egli è l’unico a ricevere l’amore divino, il suo stesso perdono. 2. Dio si ricorda e si occupa di noi Nel Salmo 8, la preziosità che ogni persona umana riveste agli occhi di Dio è data da due verbi molto importanti e ben noti alla tradizione biblica. Il primo verbo è “ricordare” (zakar), da cui zikkaron, con riferimento al memoriale, alla pasqua ebraica, e alla nostra pasqua, quella cristiana, resa con anàmnesis: noi siamo sempre nel ricordo di Dio. Anzi, ancor di più, ciò che ci sostiene e dà vita è la sua memoria vivente. Siamo sempre alla sua presenza: il nascondersi all’Onnipotente ed Eterno e Bon Signore è impossibile. Al di più, possiamo nascondere noi a noi stessi, ma sottrarci allo sguardo di Dio è impossibile (sant’Agostino). Il secondo verbo, che ammette un ventaglio di sfumature, è “occupare” (paqad): noi siamo l’occupazione di Dio, il suo pensiero costante, il suo gioco. Tradotto in modo più semplice: noi siamo il pensiero di Dio perché stiamo sempre alla sua presenza. Con il linguaggio giovanile degli innamorati, ci permettiamo di tradurre così: noi siamo il “chiodo fisso” di Dio che non gioisce per la bellezza del cielo, per il profumo dei fiori, per la bontà dei greggi e degli armenti, per gli olocausti che gli possiamo offrire, per i sacrifici consumati. Dio non si smuove per la tenerezza di un cucciolo di cane o per l’immensità degli oceani e le sconfinate distese dell’iperuranio. Il profumo intenso dei gigli di campi o della rosa canina non gli dicono nulla! Dio si smuove solo per noi: egli viene sempre verso di noi perché siamo alla sua presenza, siamo la sua occupazione. Il verbo “ricordare” lascia intendere che esiste una relazione vitale con Dio senza la quale noi non esistiamo più. Il verbo “occupare” lascia intendere anche un’ispezione da parte di Dio, un prendersi costantemente cura di noi, della nostra vita, del nostro benessere. Dio ci osserva, ci sostiene, ci nutre, ci conserva: egli sta di fronte a noi e noi siamo al suo cospetto. 3. L’interrogativo del male e della sofferenza Allora, perché il male nel mondo? Perché Dio permette la sofferenza dell’innocente? Perché il Creatore non interrompe gli sconvolgimenti cosmici? Perché non ci protegge da cataclismi e terremoti? Forse, il Signore vuole il nostro dolore, ne è lui la fonte? O vuole purificarci attraverso le nostre sofferenze? È lecito pensare che il male sia necessario per attaccarci a lui e riscoprire la nostra fede? È secondo la nostra fede credere in certe punizioni? Alcuni gnostici sostengono che Dio non è così onnipotente davanti a certi sconvolgimenti cosmici e, che, il dolore innocente, annulla ogni fede: Dio non esiste, non c’è. A volte, pseudo-veggenti sono diffusori di allarmismi e di messaggi apocalittici e catastrofici, quasi lasciano credere che possa esistere una lotta infinita tra il Bene e il Male, come due principi eterni in contrapposizione. Niente di più sbagliato. Dio è Creatore e Signore! Perché la terra continua a tremare? Perché tanta gente ancora soffre dopo terremoti e tsunami? Perché agli innocenti non è risparmiato tanto dolore? Nell’apologetica classica, che tendeva a difendere la fede nella bontà e nella provvidenza di Dio, si rispondeva riconoscendo una certa responsabilità morale dell’uomo davanti alle tragedie della sua stessa vita. Il male sopravviene perché in qualche modo – vuoi anche per errori generazionali – ha la sua origine nel nostro modo errato di agire, di comportarci. Non possiamo più sostenere questa tesi. Forse Dio ha bisogno di punirci così? Forse il Signore si vendica per i nostri peccati? Anche se è vero che la vita e la morte sono nelle sue mani (cf. Sap 1-3), è altrettanto vero che, come il cielo è alto sulla terra, così è la sua misericordia (cf. Sal 102 [103],11). Egli è bontà infinita, provvidenza, amante della vita. Noi siamo preziosi agli occhi del Signore: siamo argilla e lui nostro Padre che ci dà forma, ci plasma (cf. Is 64,7). Allora, davanti alla sofferenza di tanta gente che è circondata dal dolore innocente, dal male, che in questo momento vive la terribile tragedia del freddo, del gelo, della morte, della solitudine, dell’emarginazione, della perdita di ogni speranza, di ogni soccorso, non possiamo che interpellare Dio stesso e, come Giobbe, avere fiducia nella sua infinita bontà e provvidenza. 4. Cristo è la nostra risposta al dolore Non c’è una risposta al male, al dolore innocente. La fede cristiana ci permette di prendere parte a questo dolore attraverso Gesù, mediante la sua passione, morte e risurrezione. D’altronde, la stessa sofferenza non ha un senso: la possiamo solamente riempire di significato guardando alla vita di Gesù e alla sua pasqua. La fede non ci deve rendere consolatori stucchevoli davanti al male e al dolore degli altri: gli amici di Giobbe hanno assunto questo ruolo e non sono andati molto lontani. Dio per salvarci non ha bisogno della nostra espiazione: siamo già stati purificati e redenti attraverso la morte di Cristo, il Figlio di Dio (cf. Rm 5). La croce di Gesù è il segno della vittoria a caro prezzo che Dio stesso ha pagato per noi. La croce di Gesù è il giudizio di Dio sul male e sul dolore del mondo. Ma la croce di Gesù è anche il segno della fragilità dell’uomo, del male che siamo ancora capaci di compiere. Certe disgrazie – tragedie come quelle di Norcia, di Rieti, dell’Aquila e delle Marche – sono le conseguenze dell’agire superficiale e malato dell’uomo. Chi muore perché travolto dalla slavina o perché soffocato dalle macerie e dalle tegole penzolanti di casette abbandonate di Amatrice e dintorni, interpella le coscienze di costruttori, cittadini e politici che non hanno in alcun modo salvaguardato il bene comune e il rapporto con l’ambiente circostante. È come abitare alle pendici del Vesuvio e poi piangersi addosso perché un’eruzione improvvisa ha spazzato via e incenerito intere città partenopee. 5. Dialogare con la natura che ci circonda Abbiamo dimenticato che il termine “natura” assume, tra i diversi significati, quello di “principio operativo”, ossia di forza, di energia, autonoma. La natura/creato ha i suoi ritmi, i suoi tempi, proprie dinamiche di movimento e di azione che nel tempo – nei secoli – non abbiamo più considerato. La natura rimane cortese, bella, nonostante le minacce che essa ci rivolge. È giusto costruire case, chiese, palazzi e castelli in zone a forte rischio sismico? È lecito aprire scuole che non hanno mai ricevuto alcuna autorizzazione per la sicurezza? Quanti uffici e centri abitativi non solo dell’Italia settentrionale o centrale sono in pericolo per crolli improvvisi? Abbiamo sufficientemente valutato il rischio di tsunami sulle coste del Sud? E che cosa vogliamo dire o pensare delle continue valanghe che scendono a valle di certe zone a noi note della Costiera amalfitana e della Costa ligure? Perché ce la prendiamo con Dio? Perché dimentichiamo molto facilmente che, come amava pensare san Francesco, noi siamo creature innanzi al Creatore? Sua questa frase: “Chi sono io, Signore, e chi sei tu?”. La Bibbia fa spesso riferimento al silenzio di Dio, quello buono, non passivo. È il silenzio che educa, che invita a riflettere: in certi momenti difficili della storia d’Israele, Jhwh sembra essersi ritirato dalla scena del mondo per lasciare il suo popolo non in balìa del fato o di una forza disgregante alternativa e infinita, ma del nostro stesso destino, della nostra libertà, di usi e costumi per niente sapienti. Se non ritorniamo ad avere un rapporto quasi “panico” con il nostro Pianeta, rispettando e riscoprendo i suoi ritmi, le sue forze motrici – l’energia vitale che viene non solo dal sole ma anche dal centro della Terra – resteremo sempre impreparati davanti a fenomeni naturali che geologi e biologi ben comprendono. Si tratta d’imparare a dialogare con la natura, con l’intero creato, sull’esempio di san Francesco. 6. Il silenzio che sa operare Il silenzio di Dio che può curare le nostre ferite, in questo momento, è la non-Parola che Gesù crocifisso diventa e resta nel Venerdì santo, il giorno maledetto del mondo, ove muore il Figlio di Dio e la morte entra in Dio. È il silenzio del morente, dell’abbandonato, che condivide il dolore innocente e iniquo del mondo. Il cristiano risponde, così, innanzi a certe tragedie, con la solidarietà, l’impegno, la generosità, la prossimità, il prestare soccorso, la giustizia resa, la condivisione dei propri beni, l’attenzione agli ultimi, ai poveri, a chi muore per il gelo, perché rimasto senza tetto, senza famiglia, privo di ogni legame o ricordo. È il silenzio che diventa azione, coraggio, fiducia, che crea speranza, che rimette in gioco la nostra vita, che non autorizza nessuno a piangerci addosso. È il silenzio di chi sa operare, di chi si mette in cammino con solerzia e diventa protagonista della propria vita, ricostruendola mattone su mattone, casa per casa, focolare per focolare, in una catena infinita di atti di amore e di accoglienza, di perdono e di riconquista.