Se il clima che cambia porta il mais in Canada
E' di qualche giorno fa la notizia di uno studio pubblicato su Nature Climate Change che ha dimostrato per la prima volta sul campo (nel senso letterale di campo coltivato), come alti livelli di CO2 modifichino la capacità delle piante di assimilare nitrati e trasformarli in proteine, con la conseguente diminuzione della qualità nutrizionale delle colture alimentari. Se non bastassero gli sconvolgimenti dovuti al clima che cambia, con siccità, piogge alluvionali ed eventi estremi di vario tipo e varia gravità, che si fanno più frequenti e colpiscono in modo totalmente imprevedibile, la stessa anidride carbonica, che dei cambiamenti è la causa, ha quindi un impatto (negativo, manco a dirlo) diretto sulla produzione alimentare.
Un'altra notizia legata a clima e colture arriva però dal Nord America. Non è di per sé né buona né cattiva, ma solo la "naturale" conseguenza dell'innaturale surriscaldamento del pianeta. Non arriva neanche come una sorpresa, anzi il fenomeno è in corso da decenni ma solo adesso è divenuto evidente al punto da non poterlo davvero più ignorare: la corn belt, la fascia di coltivazione del mais, si sta spostando a nord. Talmente a nord da essere ormai arrivata in Canada.
Merito dell'abbinamento di un clima più mite, con una stagione vegetativa che si è fatta di due settimane più lunga negli ultimi 50 anni, con nuove tipologie di mais che maturano più in fretta. E la ricerca dice che la temperatura media annua nel paese della foglia d'acero è destinata ad aumentare addirittura di 3 °C entro il 2050. Così il grano cede terreno al mais, che lo scorso anno è stato seminato su 405.000 acri (164.000 ettari) nelle regioni di Manitoba, Saskatchewan e Alberta. Ancora poca cosa rispetto agli oltre 95 milioni di acri seminari a mais negli Stati Uniti, ma un vero record per il Canada: il doppio di due anni fa e quasi otto volte quello che si era seminato 20 anni fa.
Si aprono nuovi mercati, per aziende come Monsanto e DuPont, che si spingono a nord per vendere i propri semi, e per tutto l'indotto, da chi costruisce trattori a chi fabbrica granai. E se la novità infiamma molti coltivatori, che intravvedono la possibilità di fare lauti guadagni dal momento che i prezzi del mais locale sono abbastanza competitivi da mettere fuori mercato le importazioni dai vicini Usa, non manca chi frena l'entusiasmo. Come Susan Barmanovich, agricoltrice da cinque generazioni, intervistata da Bloomberg , che ai propri polli ruspanti preferisce continuare a dare grano: "Non ho mai coltivato mais, e davvero non vedo alcun vantaggio nel farlo", ha dichiarato. Nutrirli con il mais "renderebbe i nostri polli come i polli americani" con il grasso giallastro invece che bianco.
Ma il vero freno all'espansione del mais in Canada non sarà legato al desiderio di non omologarsi ai gusti statunitensi, bensì al rischio ancora alto che la coltivazione di un cereale come il mais rappresenta. Il timore non è che i raccolti possano rivelarsi scarsi, anche a causa dei capricci climatici, ma al contrario troppo abbondanti: nel 2013 la produzione mondiale ha superato la domanda per il terzo anno di fila e i prezzi sono crollati del 40% rispetto al picco raggiunto nel 2012. Se la sentiranno gli agricoltori canadesi di investire in massa su un prodotto "nuovo" dai rendimenti così incerti? (panorama.it)
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